25 Agosto 2014

Il particolare rapporto tra indeducibilità costi paradisiaci e disciplina cfc

di Ennio VialVita Pozzi
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E’ noto come l’art. 167 del tuir preveda una tassazione per trasparenza dei redditi prodotti da società controllate localizzate in paradisi fiscali (c.d. disciplina sulle controlled foreign companies).

L’art. 168 del tuir prevede la tassazione per trasparenza in ipotesi di società collegate.

La norma si pone in chiara relazione anche con l’art. 110 co. 10 e seguenti del tuir che sancisce un regime di indeducibilità dei costi paradisiaci, salvo riuscire a dimostrare una delle due esimenti previste.

Le due discipline non si sovrappongono perfettamente in quanto fanno riferimento a due black list differenti: il D.M. 22.11.2001 per la “cfc rule” ed il D.M. 23.1.2002 per l’indeducibilità dei costi.

Il comma 12 dell’articolo 110 del Tuir disciplina i rapporti intercorrenti tra le norme prevedendo che “le disposizioni di cui ai commi 10 e 11 non si applicano per le operazioni intercorse con soggetti non residenti cui risultino applicabili gli articoli 167 o 168, concernente disposizioni in materia di imprese estere partecipate”.

Tale disposizione chiarisce, nella sostanza, che ove ne ricorrano i presupposti la CFC rule si applica prioritariamente rispetto al regime di indeducibilità in esame.

Pertanto, nel caso in cui il reddito della partecipata estera venga attratto a tassazione (per trasparenza) in Italia in capo al socio residente, nei confronti di quest’ultimo non troverà applicazione il disposto del comma 10 dell’articolo 110 del Tuir relativamente ai costi derivanti da transazioni intercorse con la medesima partecipata.

La ratio della norma è chiara. E’ inutile contestare un componente di costo di una impresa italiana quando il corrispondente ricavo viene comunque tassato in capo al soggetto italiano per trasparenza.

Per fare un esempio banale potremmo ipotizzare che la società italiana riceva una fattura di 100 dalla controllata paradisiaca. Il costo di 100 è compensato dalla tassazione per trasparenza del medesimo importo.

Sul punto sono necessarie un paio di osservazioni.

Innanzitutto, il fatto che non si applichi il regime di indeducibilità dei costi non esclude l’applicazione della disciplina in materia di transfer price.

Infatti, dobbiamo ricordare come la disciplina cfc conceda correttamente un credito a fronte delle imposte pagate all’estero. Pertanto, per tornare al nostro esempio, se l’importo di 100 fosse gonfiato rispetto al valore normale, si gonfierebbe indebitamente anche il credito a fronte delle eventuali imposte estere che l’Italia dovrebbe concedere.

Una seconda osservazione importante attiene invece all’ambito applicativo dell’esclusione che riguarda solamente i costi derivanti da transazioni intercorse con la medesima partecipata e non anche i costi che detta partecipata intrattiene con controparti paradisiache.

E’ ragionevole attendersi che una società collocata in un paradiso fiscale intrattenga delle transazioni commerciali con altri soggetti in loco, non fosse altro che per acquisire i servizi essenziali per il suo funzionamento come l’assistenza legale e contabile, le utenze ed altri servizi di varia natura.

In questo caso, la tassazione per trasparenza in Italia porterà anche a un possibile sindacato della nostra Amministrazione su detti costi.

Riteniamo, tuttavia, che in questi casi la prova esimente dell’effettività della transazione e dell’interesse concreto alla stessa non sia particolarmente difficile da dimostrare in considerazione del fatto che si tratta spesso di servizi di ammontare relativamente contenuto o che, in ogni caso, difficilmente l’impresa avrebbe potuto cercare in Paesi a fiscalità ordinaria.

Tali costi troveranno, ad esempio, collocamento nei righi FC19 e FC30 del modello unico società di capitali.