Il procedimento unitario nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
di Andrea MerloIl Codice ha introdotto numerosi strumenti volti ad affrontare le problematiche di crisi e di insolvenza delle imprese, la cui attivazione rende necessario il coordinamento tra più domande di diverso contenuto, tramite riconduzione delle stesse a un unico “contenitore processuale”, che nel Codice ha assunto la denominazione di “procedimento unitario”. Di esso vengono illustrati i presupposti, le funzioni e i contenuti caratterizzanti.
Considerazioni introduttive sul “procedimento unitario”
Il Codice della crisi e dell’insolvenza (per brevità “il Codice”) è un corpus normativo unitario e organico, che disciplina la variegata fenomenologia della crisi e dell’insolvenza tramite molteplici strumenti volti a regolare lo stato di crisi e di insolvenza dell’impresa; con attenzione anche alle problematiche che riguardano le imprese minori, i professionisti e i privati cittadini che si trovino in situazione di sovra indebitamento. Non è toccata, se non marginalmente, la crisi e l’insolvenza delle grandi imprese, che restano disciplinate dalla legislazione speciale anteriormente vigente.
Il Codice ha abrogato e sostituito la c.d. “Legge Fallimentare“, che resisteva dal 1942 essendo stata promulgata con R.D. 267/1942.
Nel corso del tempo, la L.F. ha subito numerose modifiche volte ad adattarne il contenuto alle mutevoli esigenze della società economica.
Tuttavia, gli sforzi di innovazione prodottisi nel tempo non sono valsi a cogliere appieno le più sentite necessità di adeguamento normativo del settore.
Tra gli obiettivi perseguiti con maggior tenacia spicca l’intento di evitare che la crisi dell’impresa rechi con sé la disgregazione del tessuto produttivo e dei valori occupazionali.
Con gli intensi interventi riformistici collocati intorno alla metà del decennio scorso, il Legislatore ha focalizzato l’attenzione soprattutto sugli istituti del concordato preventivo e della ristrutturazione aziendale, confidando nel fatto che l’introduzione di misure intese ad agevolare l’approvazione dei concordati e dei piani di ristrutturazione aprisse il varco alla “rivitalizzazione” dei complessi produttivi e, per ciò stesso, anche alla salvaguardia dell’anello più debole della catena, ovvero la forza lavoro.
L’eco di queste riforme si perde nei meandri dell’insuccesso, sottolineato da statistiche impietose.
La difficoltà dei concordati si annidava, prevalentemente, in 2 fattori fondamentali, ovvero la scarsa disponibilità dei creditori a fungere da “vittime sacrificali” delle procedure (da cui assai spesso venivano proposte percentuali di soddisfazione troppo modeste, quando non addirittura simboliche); e, inoltre, la tendenziale impostazione dei piani su basi eccessivamente “ottimistiche”, tanto da risultare ben presto irrealizzabili in corso d’opera.
Il problema del bilanciamento tra gli opposti valori in gioco – da un lato la tutela dei creditori, dall’altro lato l’esigenza di salvaguardia dell’azienda produttiva – si è sempre rivelato difficile, quale che fosse lo strumento utilizzato per cercare di affrontare il problema della crisi: di qui la vanità degli sforzi reiterati del Legislatore di individuare efficaci strumenti di tipo preventivo, o comunque alternativi alla procedura concorsuale principale del “fallimento” (che con l’avvento del Codice ha mutato denominazione in “liquidazione giudiziale”, senza tuttavia cambiare di sostanza).
Si è dunque spostata l’attenzione su un altro aspetto rilevante, ovvero il “fattore tempo”.
Assai frequentemente, infatti, l’estrema difficoltà di salvare l’impresa dal dissesto deriva dal fatto che essa, pur trovandosi in situazione di squilibrio economico-patrimoniale, prosegue tuttavia a operare normalmente per un certo tempo senza adottare, con la dovuta tempestività, le misure necessarie a sopperire allo squilibrio.
La conseguenza di ciò è il progressivo aggravamento della situazione.
È, infatti, di intuitiva evidenza che un certo deficit di risorse è in grado di generare altro deficit che, sommandosi al primo, moltiplica il grado di difficoltà di resistenza dell’impresa, in un percorso negativo a catena che – ove non interrotto con misure adeguate e tempestive – può compromettere la continuità aziendale e condurre all’insolvenza.
Di qui l’importanza del fattore temporale, nel senso che quanto più è tempestiva la rilevazione dei sintomi di crisi, tanto più sono maggiori le possibilità di intervento con misure correttive adeguate.
L’importanza del “fattore tempo” aveva condotto anche in Italia a postulare l’introduzione delle c.d. “misure d’allerta” – la cui efficacia dipende, appunto, dalla tempestività della rilevazione dei primi sintomi di una crisi -, che in altri Paesi (soprattutto in Francia) avevano dato buona prova di sé. Sennonché l’istituto è stato ampiamente criticato da più parti, in quanto ritenuto troppo rigido e scarsamente adattabile al nostro Paese, ed è stato infine accantonato.
Non è però venuta meno, nella concezione riformistica che ha portato al Codice, l’attenzione al tema cruciale della tempestività sia della rilevazione dei sintomi di crisi sia, in stretta correlazione, dei rimedi da adottare per rimediare ai sintomi.
Così ad esempio, in un approccio schiettamente “preventivo”, il Codice ha posto l’accento sul dovere delle imprese individuali e collettive di dotarsi di assetti organizzativi adeguati a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e a consentire l’adozione di misure idonee a farvi fronte (si veda, articolo 3, Codice), all’uopo introducendo anche un “catalogo” di situazioni sintomatiche, dinnanzi alle quali l’impresa non possa indugiare nell’assumere gli opportuni rimedi (cfr. articolo 3, comma 4, Codice).
Circa i “rimedi”, venuto meno l’interesse per le misure d’allerta, il Legislatore ha introdotto l’istituto della “composizione negoziata”, che è disciplinata dagli articoli da 12 a 25-undecies, Codice ed è diffusamente ritenuta il perno centrale e l’istituto più innovativo dell’intera Riforma della crisi d’impresa.
Peraltro, la composizione negoziata è ritagliata su misura per la crisi rimediabile ragion per cui non si presta ad affrontare ogni possibile situazione e, in particolare, non è idonea a fronteggiare una crisi talmente profonda da non infondere alcuna, seppur minima, speranza di risanamento dell’impresa.
Se dunque un’impresa non possa essere risanata, occorre tuttavia perlomeno tentare di salvaguardarne la capacità produttiva e i posti di lavoro, in tutto o in parte.
Di qui una concezione alquanto allargata e “generosa” del concetto di “risanamento” perseguito in sede di composizione negoziata; ma altresì, a seguire, l’introduzione di un ampio corredo di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”: i piani attestati di risanamento (articolo 56), gli accordi di ristrutturazione (articoli 57-59), anche nella versione “agevolata” (articolo 60) o “ad efficacia estesa” (articolo 61), le convenzioni di moratoria (articolo 62), il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, c.d. pro (articoli 64-bis – 64-quater), il concordato preventivo (articoli 84-120); con norme specificamente dedicate alla trattazione dei debiti fiscali e previdenziali tramite il c.d. “concordato fiscale” e “previdenziale” (per gli accordi di ristrutturazione, si veda l’articolo 63, Codice; per il concordato preventivo, si veda l’articolo 88, Codice). Sono, inoltre, previsti altri strumenti specificamente destinati alla composizione della crisi da sovraindebitamento dei consumatori, dei professionisti e delle imprese c.d. “minori” (si veda, articoli 65-83, Codice).
Nell’assetto del nuovo Codice, i suddetti strumenti sono ritenuti tutti preferibili rispetto alla soluzione più drastica costituita dalla procedura di “liquidazione giudiziale” (articoli 121-267) e, per le imprese minori, dalla “liquidazione controllata” (articoli 268-277). Ciò in ragione della miglior attitudine dei primi – almeno in astratto – a salvaguardare in tutto o in parte le aziende produttive e i contratti di lavoro.
Si delinea dunque un sistema gerarchico orientato a privilegiare gli strumenti “conservativi” dell’impresa rispetto agli strumenti schiettamente liquidatori.
Il quadro è reso ulteriormente complicato dalla molteplicità dei soggetti coinvolti dal fenomeno della crisi, i quali perseguono obiettivi ben diversi tra loro: da un lato il debitore, che ha interesse a resistere e salvaguardare la “sua” azienda; dall’altro lato i creditori, che premono per veder soddisfatte le loro ragioni e sono animati da intenti aggressivi nei confronti del debitore; dall’altro lato ancora il PM, che essendo chiamato a perseguire gli interessi pubblici è spesso partecipe di primo piano in vicende di insolvenza. Un cenno va fatto anche agli organi di controllo e gli organi di vigilanza delle imprese, che in caso di crisi o di insolvenza sono abilitati a intervenire direttamente.
I suddetti soggetti si muovono autonomamente l’uno dall’altro e ben può accadere – come assai spesso nella prassi accade – che in un medesimo lasso temporale vi sia la compresenza di una o più istanze di liquidazione giudiziale presentate dai creditori e/o dal PM e una domanda del debitore volta ad attivare uno strumento di tipo conservativo.
Il funzionamento di un sistema così complesso – contraddistinto, cioè, dalla possibile compresenza di più domande confliggenti e dalla necessità di coordinarle tutte secondo l’ordine gerarchico voluto dalla legge – è reso possibile da un iter procedurale ben preciso che raduna e coordina, all’interno di un unico “contenitore processuale”, tutte le domande presentate dalle parti per attivare uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ovvero, una procedura concorsuale liquidatoria.
Questo istituto processuale introdotto dal Codice prende il nome di “procedimento unitario” e rappresenta un’innovazione molto significativa rispetto all’abrogata disciplina della L.F., la quale era contraddistinta da poche norme processuali dedicate alla figura paradigmatica del “fallimento”, le quali dovevano essere necessariamente integrate con richiamo alle norme generali del codice di procedura civile e dovevano altresì essere adattate rispetto alle procedure concorsuali diverse dal “fallimento” (le procedure c.d. “minori”, che oggi hanno cambiato nomenclatura).
Trattandosi di materia alquanto variegata e “tecnica”, nei capitoli che seguono ci soffermeremo sugli aspetti salienti del procedimento unitario, cercando di metterne in risalto gli aspetti funzionali e sistematici salienti.
L’articolo 7, Codice quale norma cardine del “procedimento unitario”
Origine storica, finalità e requisiti dell’articolo 7, Codice
Come si diceva, il Codice ha introdotto la “composizione negoziata”, che è uno strumento stragiudiziale finalizzato al risanamento dell’impresa in crisi attraverso una trattativa tra debitore e creditori, condotta con l’ausilio di un “esperto” nominato dalla CCIAA competente territorialmente e volta al raggiungimento di un accordo negoziale idoneo ad assicurare il superamento della crisi.
Se il risanamento (nell’accezione allargata di cui si è detto) non è perseguibile, il debitore può accedere a uno degli altri “strumenti” messi a disposizione dal Codice, i quali nel loro insieme prendono il nome di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”.
Va sin da subito osservato che le prime statistiche sugli esiti delle procedure di composizione negoziata non sono incoraggianti, perché il risanamento anche solo parziale è obiettivo di per sé proibitivo e, molto spesso, minato in radice dell’eccessiva gravità della crisi “di partenza”; possiamo anzi azzardare l’ipotesi – che l’esperienza pratica delle procedure liquidatorie potrà o meno confermare – che in un certo numero di casi i tentativi di composizione negoziale avranno condotto soltanto a un aggravamento della situazione per i maggiori costi del procedimento, oltre a un ragguardevole allungamento dei tempi di accesso alla procedura di liquidazione giudiziale.
Ciò detto, resta il fatto che la sola pendenza di una composizione negoziata è ostativa alla pronuncia della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, salvo che il Tribunale non disponga la revoca delle “misure protettive” che, immancabilmente, vengono domandate dal debitore nel corso della composizione (articolo 18, comma 4, Codice).
Se poi, all’esito della trattativa condotta insieme all’esperto, un accordo non possa essere raggiunto e il debitore si avvalga di un diverso “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, ecco che nuovamente viene preclusa la via alla più drastica soluzione della liquidazione giudiziale.
Questo perché, come dicevamo sopra, esiste una gerarchia di strumenti che privilegia quelli “conservativi” rispetto a quelli puramente liquidatori.
Questa gerarchia è stata codificata in una norma cardine del procedimento unitario, ovvero, l’articolo 7, Codice, intitolato “Trattazione unitaria delle domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alle procedure di insolvenza”.
La norma è il frutto di un percorso giurisprudenziale formatosi nel vigore dell’ormai abrogata L.F., alla luce delle prassi adottate dai Tribunali per coordinare plurime procedure concorsuali pendenti aventi al centro il medesimo debitore in crisi o insolvente.
Fondamentali in materia 2 pronunce coeve e conformi delle Sezioni Unite della Cassazione, ovvero Cassazione, n. 9935/2015 e n. 9936/2015, così massimate:
“In pendenza di un procedimento di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell’art. 161, sesto comma, legge fall., il fallimento dell’imprenditore, su istanza di un creditore o su richiesta del P.M., può essere dichiarato soltanto quando ricorrono gli eventi previsti dagli artt. 162, 173, 179 e 180 legge fall. e cioè, rispettivamente, quando la domanda di concordato sia stata dichiarata inammissibile, quando sia stata revocata l’ammissione alla procedura, quando la proposta di concordato non sia stata approvata e quando, all’esito del giudizio di omologazione, sia stato respinto il concordato; la dichiarazione di fallimento, peraltro, non sussistendo un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra le procedure, non è esclusa durante le eventuali fasi di impugnazione dell’esito negativo del concordato preventivo. (Rigetta, App. Venezia, 04/06/2013)”.
La ratio dell’articolo 7, Codice risulta ora piuttosto chiaro e consiste nell’assicurare:
- il coordinamento tra più domande di diverso contenuto, tramite riconduzione delle stesse a un unico “contenitore processuale”;
- una rilevante economia di mezzi processuali insita nel suddetto coordinamento;
- priorità agli strumenti conservativi rispetto agli strumenti liquidatori;
- contenimento degli abusi;
- assicurazione ai creditori, tramite gli strumenti conservativi, di un maggior vantaggio, ovvero, di un trattamento non deteriore rispetto alla soluzione liquidatoria.
Il delicato problema del “contenimento degli abusi”
Un cenno merita il tema del “contenimento degli abusi”, ora sancito nell’articolo 7, comma 2, lettere a) e b), Codice, di cui abbiamo già saggiato il significato alla luce delle notazioni precedenti a proposito della tortuosità dell’iter che può portare dall’inizio di un tentativo di composizione negoziata sino all’apertura della liquidazione giudiziale.
L’argomento non è nuovo.
Le stesse pronunce di Cassazione, n. 9935/2015 e n. 9936/2015, affermavano che la domanda di concordato preventivo presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile, in quanto integra gli estremi di un abuso del processo: “che ricorre quando, con violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per perseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento li ha predisposti”.
Nel vigore dell’ormai abrogata L.F. lo strumento che più si prestava al rischio di abuso era senza dubbio il concordato c.d. “in bianco” o “con riserva” (istituto confermato dal Codice, sebbene in certa misura “depotenziato”, a favorire il procedimento “stragiudiziale” di composizione negoziata), che consentiva al debitore di bloccare istantaneamente le azioni aggressive dei creditori con la presentazione di una domanda di concordato e/o ristrutturazione ancora “vuota” di contenuto (d’onde l’espressione gergale “in bianco”) e con riserva di corredare tale domanda del vero e proprio piano concordatario entro un certo termine che veniva richiesto al Tribunale di concedere.
Un primo termine (compreso tra i limiti di 60 e 120 giorni) veniva immancabilmente concesso dal Tribunale, il quale nominava un commissario giudiziale incaricato di controllare l’andamento della società debitrice nel periodo dilatorio concesso (trattandosi di concordato non ancora dichiarato, l’organo di controllo veniva denominato, nel gergo, “pre-commissario“), nel contempo onerando la debitrice di rendere periodicamente una situazione patrimoniale aggiornata e di relazionare in ordine ai passi compiuti nella predisposizione del piano definitivo.
Approssimandosi la scadenza del termine, soleva spesso accadere che venisse richiesta una proroga di altri 60 giorni (proroga massima prevista) per la presentazione della domanda definitiva, adducendo una motivazione plausibile; nel caso di concessione, l’iter proseguiva nello stesso modo.
Dopo tutto ciò, le statistiche indicano che in molti casi i piani non venivano neppure presentati.
È lecito a questo punto chiedersi se situazioni di questo genere celassero dei veri e propri abusi dello strumento concordatario.
La risposta doveva essere positiva in molti casi se, sulla scorta del ricordato indirizzo interpretativo della Cassazione, per abuso si debba intendere l’utilizzo dello strumento procedurale al solo scopo di postergare il più possibile l’emersione del dissesto, pur sapendo “a priori” che la domanda presentata fosse priva di possibilità di accoglimento.
Tuttavia, la casistica è più variegata e registra anche situazioni (di cui anche chi scrive ha fatto frequente esperienza) in cui la domanda non era puramente e semplicemente dilatoria, bensì funzionale alla conduzione di trattative concrete e indirizzate al salvataggio dell’impresa in crisi.
In casi del genere, anche laddove la trattativa non abbia raggiunto il suo obiettivo, l’abuso non sussiste certamente e lo strumento procedurale ha effettivamente svolto una funzione utile e coerente con la sua finalità: che è quella di incentivare e agevolare, nei limiti del possibile e del “giusto”, la salvaguardia dell’azienda produttiva e dei valori economici e sociali di cui essa è portatrice.
Il tutto, in un dialogo equilibrato con i creditori che, sebbene abbiano interessi contrapposti, possono anch’essi trarre dal salvataggio dell’azienda un maggior beneficio rispetto a quello potenzialmente ritraibile dall’ammissione dell’impresa a una procedura concorsuale schiettamente liquidatoria (in passato il “fallimento”, oggi la “liquidazione giudiziale”).
La priorità degli strumenti “conservativi” rispetto alla liquidazione giudiziale e alla liquidazione controllata
Quanto appena osservato ci introduce idealmente alle ragioni che sottendono il principio di priorità degli strumenti conservativi rispetto a quelli liquidatori, sancito nella prima parte, comma 2, articolo 7, Codice.
Stabilisce, infatti, la norma che nel caso di compresenza di più domande di accesso agli strumenti previsti dal Codice, tra cui vi è almeno una domanda di apertura della liquidazione giudiziale o della liquidazione controllata, il Tribunale sia tenuto a esaminare “in via prioritaria” la domanda: “diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata”.
Pertanto, la presentazione di una domanda di concordato preventivo, oppure, di una domanda di ristrutturazione, anche se declinata nella versione “con riserva”, comporterà la sospensione della trattazione della domanda di liquidazione giudiziale (o di liquidazione controllata), in modo da assicurare che il tentativo di conservazione, anche solo parziale o “indiretta”, della continuità aziendale prevalga rispetto alla precipitazione dell’impresa nel solco della pura e semplice disgregazione liquidatoria.
Sul piano processuale, questa soluzione è resa possibile proprio dall’unitarietà del procedimento che, nell’accogliere tutte le domande presentate, impedisce che ciascuna di esse sia lasciata libera di proseguire per il suo corso e che ne consegua la prevalenza di quella che pervenga per prima alla conclusione del suo iter processuale.
Sospesa, dunque, la trattazione della domanda di liquidazione giudiziale, il giudice è chiamato a esaminare in via prioritaria la domanda di accesso a uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza già catalogato (sempreché, beninteso, tale domanda non sia manifestamente inammissibile o velleitaria): piano attestato di risanamento, accordo di ristrutturazione, concordato preventivo, etc..
Ciascuno strumento ha una sua specifica disciplina, che influisce anche sull’andamento del processo. Questo fa sì che, dopo l’introduzione di tutte le domande che vengono innestate in un unico procedimento (con modalità in qualche misura assimilabile alla “riunione” processuale delle domande), il procedimento stesso si debba conformare ai contenuti della domanda da esaminare in via prioritaria.
Modalità e presupposti per l’instaurazione del “procedimento unitario”
L’accesso a uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza ovvero alla procedura di liquidazione giudiziale ha luogo tramite ricorso (articolo 37, Codice), che dev’essere presentato al Tribunale sede delle Sezioni specializzate in materia di imprese, che dal punto di vista della competenza territoriale va individuato con riferimento al “luogo in cui il debitore ha il centro degli interessi principali” (articolo 27, Codice).
Il “centro degli interessi principali” dell’impresa (c.d. “Comi”, acronimo dell’espressione inglese “Centre Of Main Interests” mutuata dal Regolamento 2015/848/UE) coincide con la sede “effettiva” dell’impresa stessa, cioè con il luogo ove la stessa svolge abitualmente e in modo riconoscibile ai terzi la sua attività produttiva e/o commerciale prevalente.
L’articolo 27, comma 3, Codice, stabilisce una presunzione di coincidenza tra centro degli interessi principali e “sede legale” dell’impresa: trattasi tuttavia di presunzione iuris tantum, che può essere vinta dando prova che la sede effettiva è collocata altrove.
A evitare il fenomeno del c.d. “forum shopping” – ovvero, l’attuazione di manovre di trasferimento di sede dell’ultim’ora, al solo scopo di determinare una competenza territoriale più gradita -, l’articolo 28, Codice, rende irrilevante, ai fini della competenza territoriale, il trasferimento del centro degli interessi principali intervenuta nell’anno antecedente al deposito della domanda di accesso a uno degli strumenti in questione.
Quanto ai soggetti legittimati alla presentazione del ricorso, l’articolo 37, Codice, li individua distinguendo tra i tipi di domanda oggetto del ricorso, come segue:
- la domanda di accesso a uno strumento “conservativo” (concordato preventivo, piano attestato, etc.), spetta al debitore;
- la domanda di apertura della liquidazione giudiziale (o liquidazione controllata) può essere prestata dallo stesso debitore, oppure dagli organi o dalle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa, oppure ancora a uno o più creditori, o infine al PM.
L’articolo 40, Codice e la fase di avvio del “procedimento unitario”
Lo svolgimento del procedimento unitario è disciplinato dagli articoli da 40 a 53, Codice.
La norma cardine, che concerne l’avvio del procedimento unitario, è l’articolo 40 (“La domanda di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alla liquidazione giudiziale”), che si articola in ben 10 commi di contenuto puramente processuale, che possiamo così sintetizzare:
- il procedimento si svolge dinanzi al Tribunale “in composizione collegiale” (comma 1) e viene attivato con ricorso che dev’essere sottoscritto da “difensore munito di procura” e per le società dev’essere deciso dagli amministratori con delibera che deve risultare da assemblea redatta da notaio (comma 2);
- la domanda del debitore è iscritta a Registro Imprese (in cui dev’essere fatta menzione dell’eventuale richiesta di misure protettive) e dev’essere trasmessa al PM (comma 3);
- se la domanda ha a oggetto l’omologa di accordi di ristrutturazione, gli accordi vanno pubblicati al Registro Imprese e acquistano efficacia “dal giorno della pubblicazione”. Con il decreto di comparizione delle parti nel giudizio di omologa il Tribunale può nominare un commissario giudiziale, ovvero, confermare quello già nominato nel caso di domanda presentata “con riserva”; la nomina è obbligatoria se pendono istanze per l’apertura della liquidazione giudiziale (comma 4);
- nel procedimento di liquidazione giudiziale “il debitore può stare in giudizio personalmente” (comma 5);
- in caso di domanda proposta da soggetti diversi dal debitore (tipicamente, nel caso di domanda di liquidazione giudiziale), il ricorso e il decreto di convocazione devono essere notificati alla pec del debitore (comma 6); e quando tale notifica non risulta possibile o non ha esito positivo “per causa imputabile al destinatario”, l’iter di notifica viene legalmente sostituito da una fictio iuris consistente nell’inserzione di ricorso e decreto in apposita “area web” istituenda (comma 7); tale “area web” non ha però mai visto la luce (e sarà abrogata dal correttivo in fase di approvazione), sicché vi si sopperisce con la tradizionale notifica “a mani”; modalità, quest’ultima, che viene seguita quando la notifica via pec non ha luogo “per cause non imputabili al destinatario” (comma 8);
- nel caso di pendenza di un procedimento di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza, la domanda di apertura della liquidazione giudiziale è proposta “nel medesimo procedimento”, o, se proposta separatamente, viene a esso riunita (comma 9);
- nel caso inverso, ovvero, di pendenza di un procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale introdotto da un soggetto diverso dal debitore, la domanda di quest’ultimo di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è proposta “nel medesimo procedimento, a pena di decadenza, entro la prima udienza” (o se proposta separatamente, viene riunita); dopo la prima udienza, la domanda “non può essere proposta autonomamente sino alla conclusione del procedimento per la apertura della liquidazione giudiziale”; tuttavia, il termine di decadenza della prima udienza non si applica se la domanda di accesso allo strumento “conservativo” è proposta dal debitore “all’esito della composizione negoziata”, entro 60 giorni dalla comunicazione dell’esito negativo della stessa a cura dell’esperto (comma 10).
La fase istruttoria
L’istruttoria si connota della sommarietà tipica del procedimento camerale e si articola in modo che varia a seconda del tipo di “strumento” attivato con la domanda.
Di particolare rilevanza è l’articolo 39, Codice, che disciplina gli obblighi di produzione documentale che incombono al debitore, quando la domanda promani dallo stesso.
In particolare, il debitore è tenuto a depositare:
- le scritture contabili e fiscali obbligatorie;
- le dichiarazioni dei redditi, Irap e Iva concernenti i 3 esercizi o anni precedenti, ovvero, l’intera esistenza dell’impresa o dell’attività economica o professionale, se questa ha avuto una minore durata;
- i bilanci relativi agli ultimi 3 esercizi;
- una relazione sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria aggiornata;
- uno stato particolareggiato ed estimativo delle sue attività;
- un’idonea certificazione sui debiti fiscali, contributivi e per premi assicurativi;
- l’elenco nominativo dei creditori e dei titolari di diritti reali e personali su cose del debitore;
- una relazione riepilogativa degli “atti di straordinaria amministrazione” (catalogati nell’articolo 94, comma 2, Codice) compiuti nel quinquennio anteriore.
Quando la domanda del debitore sia “con riserva”, il debitore deve depositare solo una parte dei documenti sopra elencati (bilanci ed elenco dei creditori), mentre l’ulteriore documentazione va depositata “nel termine assegnato dal tribunale ai sensi dell’articolo 44, comma 1, lettera a)”, ovvero contestualmente al deposito della proposta di concordato preventivo insieme al piano, ovvero della domanda di omologa degli accordi di ristrutturazione (annotiamo che, stando al testo del “correttivo” in discussione in Parlamento, in futuro lo scioglimento di “riserva” dovrebbe poter avere luogo anche con altre modalità, che in pratica riconducono a tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, non solo al concordato o all’omologa degli accordi di ristrutturazione).
Fermi gli obblighi del debitore sopra descritti, la fase istruttoria è imperniata anche sull’articolo 42, Codice, che disciplina l’istruttoria officiosa nel caso di domande di apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo.
Tale istruttoria è basata sul collegamento telematico diretto tra cancelleria del Tribunale e le P.A. indicate dall’articolo 367, Codice, a oggi non ancora a pieno regime, sebbene una parte dei dati indicati nell’articolo citato vengano già oggi (e già da tempo) acquisiti dalla cancelleria concorsuale.
L’articolo 367, Codice (rubricato “Modalità di accesso alle informazioni sui debiti risultanti da banche dati pubbliche”) stabilisce che le P.A. che gestiscono le banche dati del Registro Imprese, Anagrafe tributaria e Inps trasmettono direttamente e automaticamente alla cancelleria i dati e i documenti seguenti:
- Registro Imprese (comma 2): ultimi 3 bilanci, visura storica, operazioni straordinarie (aumento/riduzione capitale sociale, fusioni, scissioni, trasferimenti di aziende o rami aziendali, etc.), altri documenti individuati con decreto del Ministero giustizia di concerto con il Mimit;
- Agenzia delle entrate (comma 3): ultime 3 dichiarazioni dei redditi, elenco atti registrati, debiti fiscali “indicando partitamente .. interessi, sanzioni e gli anni in cui i debiti sono sorti”; altri documenti individuati con decreto del direttore generale giust. civ. d’intesa col presidente Agenzia delle entrate;
- Inps (comma 4): informazioni relative ai debiti contributivi; altri documenti individuati con decreto sopra citato, d’intesa con il presidente dell’Inps;
- altre P.A. individuate con Decreto giustizia (comma 6): altre informazioni “rilevanti per la sussistenza dei requisiti eccedenti quelli di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d)”, cioè i requisiti della “impresa minore” (ipotesi: schede centrale rischi Banca d’Italia; dati contributivi Inpdap; dati assicurativi Inail, etc.).
La cancelleria del Tribunale assume quindi un ruolo attivo nella raccolta dei dati utili all’istruttoria nel procedimento di apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo. Nondimeno, l’istruttoria officiosa non incide sulla pienezza dell’obbligo di deposito previsto in capo al debitore dall’articolo 39, Codice.
Un cenno merita infine il comma 6, articolo 367, Codice, laddove si riferisce all’acquisizione delle informazioni sul debitore “rilevanti sulla sussistenza dei requisiti eccedenti quelli di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d)”: la norma sembra blandire il regime di presunzione di dimensione “oltre soglia”, ai fini della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, statuito dall’articolo 121, comma 1, Codice (che recita “Le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’articolo 2, comma 1, lettera d), e che siano in stato di insolvenza”), nel senso che, a riprova dell’assenza della dimensione “oltre soglia”, potrebbe bastare quanto emerge dalle informazioni acquisite tramite banche dati delle P.A., pur in assenza di elementi istruttori offerti dal debitore o in caso di contumacia dello stesso.
Sarebbe indubbiamente auspicabile che la suddetta lettura facesse breccia, ove si consideri che le procedure di liquidazione giudiziale di imprese modestissime si rivelano di regola inutili e diseconomiche.
In argomento, si registra il precedente “benaugurante” di Tribunale Catania 12 gennaio 2023, la cui pronuncia è così massimata: “L’art. 121 CCII va inteso come volto a delimitare l’ambito di applicazione della liquidazione giudiziale agli imprenditori nei cui confronti non si palesi il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), CCII, cioè, al di là dell’eventuale attività probatoria svolta sul punto dal debitore e all’esito degli accertamenti officiosi che concernono direttamente anche tale profilo, nei cui confronti non emerga il fatto positivo della sussistenza dei requisiti eccedenti quelli di cui allo stesso art. 2, comma 1, lett. d); ne consegue che il ricorso per l’apertura della liquidazione giudiziale deve essere rigettato quando, contumace il debitore, alla luce della documentazione acquisita dal tribunale ex art. 367, commi 3 e 6, CCII, non risulti che lo stesso debitore superi almeno una delle soglie di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), CCII“.
Va peraltro detto che gli orientamenti dei Tribunali italiani sembrano piuttosto restrittivi sul punto, sicché imprese “microscopiche” verso cui viene presentata domanda di ammissione alla liquidazione giudiziale, che in punto di requisiti dimensionali si difendono male, oppure, non si difendono affatto, vengono per lo più ammesse alla procedura di liquidazione giudiziale senza colpo ferire, quand’anche per via officiosa emergano dati sintonici rispetto a una diagnosi di dimensionamento “sotto soglia”.
Le “varianti” dopo l’apertura del procedimento
Dopo la sua apertura, il procedimento unitario assume le “varianti processuali” che derivano dall’oggetto delle domande che vi sono contenute.
Il “percorso” dipende dunque dai soggetti coinvolti e dall’oggetto delle loro domande.
L’economia del presente scritto preclude la disamina analitica di ciascuna singola “variante”, sicché ci limitiamo a catalogarle in base ai soggetti che presentano la domanda (articolo 37, Codice):
a) domande presentate dal debitore (anche all’esito di tentativo di composizione negoziata, articoli 17, comma 8, 23, comma 8, 40, comma10, ultimo periodo, Codice):
- apertura della liquidazione giudiziale (articoli 41-42, Codice);
- domanda c.d. “con riserva” per la concessione di termine per il deposito della proposta e del piano di uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza (articolo 44, Codice);
- domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione (articolo 57, Codice) o accordi di ristrutturazione agevolati (articolo 60, Codice);
- apertura del concordato preventivo (articolo 47, Codice)
- ammissione del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, c.d. “PRO” (articolo 64-bis, Codice);
- omologa del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (articolo 25-sexies, Codice);
- in funzione dell’efficacia degli strumenti: richiesta di misure cautelari e protettive (articoli 54-55, Codice);
b) domande presentate da altri soggetti (creditori, PM, soggetti con funzioni di controllo e vigilanza ove presenti):
- apertura della liquidazione giudiziale (articoli 41-42, Codice);
- proposta concorrente di concordato preventivo (articolo 90, Codice);
- apertura della liquidazione controllata di debitori sotto soglia (articolo 270, Codice).
Va, inoltre, considerata la casistica dei soggetti sovra indebitati (tra cui le imprese sotto soglia), in relazione ai quali le domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza sono egualmente assoggettate, nei limiti della compatibilità, alla disciplina del procedimento unitario.
Ciò in ragione del rinvio alle disposizioni del Titolo III “in quanto compatibili” disposta dal comma 2, articolo 65, Codice, che è norma dedicata alle “Disposizioni di carattere generale” in materia di procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento.
Pertanto, la domanda del soggetto sovra indebitato sotto soglia si conforma, per quanto compatibile, al dettato dell’articolo 40, Codice, e nelle sue “varianti” post apertura può essere indirizzata:
- all’apertura della procedura di ristrutturazione dei debiti (articolo 67, Codice);
- alla procedura per l’omologazione del concordato minore (articolo 74, Codice);
- a una delle 2 soluzioni suddette, nel caso di “procedure familiari” (articolo 66, Codice);
- all’apertura della procedura di liquidazione controllata (articolo 270, Codice).
Le misure cautelari e protettive
Definizione e tratti contenutistici salienti
Agli articoli da 40 a 53, Codice dedicati al “procedimento unitario” seguono immediatamente 2 norme dedicate alle “misure cautelari e protettive” (articoli 54 e 55, Codice).
Dal punto di vista sistematico, la collocazione normativa conferma l’obiettiva “vicinanza” tra le 2 realtà processuali: nell’ambito di un qualsiasi procedimento unitario, dedicato all’attivazione degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ovvero, all’apertura della liquidazione giudiziale – che di per sé si presta a una contrapposizione molto spinta tra le parti del processo -, si inserisce spesso l’esigenza di calmierare le iniziative degli uni o degli altri, allo scopo di non alterare le regole del gioco delineate dal Codice.
Un’analoga esigenza, peraltro, sussiste anche rispetto alla disciplina della composizione negoziata: la quale, ricordiamo, non è annoverata tra gli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, trattandosi di istituto stragiudiziale che – almeno idealmente e concettualmente – anticipa e precede il ricorso ai suddetti strumenti, essendo finalizzato al “risanamento” rispetto a una crisi o un’insolvenza “reversibile”.
Di qui la previsione, all’interno della cornice normativa della composizione negoziata, di alcune norme ad hoc dedicate alle misure cautelari e protettive (articoli 18, 19 e 20, Codice).
Il mix delle situazioni che, nell’uno o nell’altro ambito, possono scaturire dalla richiesta di misure cautelari e/o protettive è molto variegato e l’illustrazione ragionata di una casistica sufficientemente completa richiederebbe uno spazio che esula dall’economia del presente scritto, sicché ci limiteremo a notazioni di puro inquadramento generale.
Partiamo dunque dalla definizione delle misure in questione alla luce dell’articolo 2, Codice, per fornirne, occasionalmente, un sintetico inquadramento.
Le misure protettive
Tali misure possono dunque essere chieste solo dal debitore, in funzione del buon esito dello strumento di regolazione della crisi prescelto.
Tra le misure protettive “tipiche”, che prendono effetto da quando il debitore ne faccia domanda e dalla data di pubblicazione al Registro Imprese, possiamo annoverare (articolo 54, comma 2, Codice): il divieto di azioni cautelari ed esecutive, la neutralizzazione dei tempi per il decorso di prescrizioni e decadenze, la declaratoria di inefficacia delle cause di prelazione non concordate e, inoltre, la stessa inibizione all’apertura della liquidazione giudiziale.
Ai sensi del comma 3, articolo 54, Codice, le misure protettive possono essere richieste dal debitore “anche nel corso delle trattative e prima del deposito della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione” e anche quando si tratti di accordi “ad efficacia estesa”, purché siano rispettati determinati vincoli posti a tutela dei creditori non partecipi della trattativa o che hanno negato la loro disponibilità a trattare.
Giusta il comma 4, articolo 54, Codice, le misure protettive tipiche del divieto di azioni esecutive e cautelari e della sospensione dei termini di prescrizione e decadenza possono essere chieste anche prima della domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza, e cioè tramite presentazione di domanda “con riserva”, oppure, tramite domanda di accesso alla composizione negoziata.
Le misure cautelari
Le misure cautelari sono innominate e “atipiche”, in quanto debbono venire conformate a ciò che realmente appare necessario nel caso concreto per tutelare al meglio, in via provvisoria, il patrimonio o l’impresa del debitore, in funzione del buon esito delle trattative e l’attuazione delle sentenze di omologazione di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e di apertura delle procedure di insolvenza.
Le misure cautelari vengono sempre concesse su istanza di parte, anche nei procedimenti propedeutici al concordato preventivo, al piano e agli accordi di ristrutturazione, e il loro contenuto è vario, compresa la nomina di un custode dell’azienda o del patrimonio.
La legittimazione alla domanda cautelare spetta ai creditori, o al PM, ovvero ancora agli organi di controllo e di vigilanza, che instano per l’apertura della liquidazione giudiziale. Essa spetta inoltre al debitore, non solo nel contesto della procedura per la dichiarazione di liquidazione giudiziale ma anche nell’insieme degli strumenti di composizione concordata della crisi.
Quanto al contenuto, il comma 1, articolo 54, Codice, annovera espressamente la “nomina di un custode dell’azienda o del patrimonio“, ciò che di regola presuppone l’emissione di un provvedimento di sequestro conservativo o giudiziario di valori patrimoniali aziendali (l’intero patrimonio, o un ramo aziendale, o anche quote o azioni societarie). Non sono poi da escludersi anche provvedimenti di tipo inibitorio, che risultino strumentali alla conservazione del patrimonio del debitore.
La durata delle misure protettive
L’articolo 8, Codice, stabilisce una durata massima delle misure protettive, nei seguenti termini: “La durata massima delle misure protettive, fino alla omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza o alla apertura della procedura di insolvenza, non può superare il periodo, anche non continuativo, di dodici mesi, inclusi eventuali rinnovi o proroghe, tenuto conto delle misure protettive di cui all’articolo 18”.
Nella versione originaria, l’articolo 8, Codice, non faceva alcun richiamo alle misure protettive concesse ai sensi dell’articolo 18, Codice, nell’ambito della composizione negoziata ed è stato aggiornato alla versione attuale dal D.Lgs. 83/2022, per conformarlo pienamente alla Direttiva Insolvency (articolo 6, § 8, Direttiva UE 1023/2019/UE e “considerando” n. 35).
L’integrazione è dovuta al fatto, più volte accennato, che la composizione negoziata si pone al di fuori degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ma purtuttavia prevede, all’articolo 18, Codice, la facoltà del debitore di chiedere l’adozione di misure protettive, ragion per cui poteva sorgere il dubbio interpretativo circa la computabilità, ai fini del calcolo del termine massimo, delle misure protettive concesse nell’ambito della composizione negoziata.
Come chiarito dalla Relazione illustrativa al D.Lgs. 83/2022, la parziale riformulazione della norma ha inteso eliminare: “ogni possibile dubbio interpretativo sui rapporti tra le misure concesse nell’ambito del percorso negoziale disciplinato dal Titolo II e quelle richieste nell’ambito di procedure giudiziali”.
Riepilogando, l’articolo 8, Codice, nella sua versione attuale, non solo fissa il limite massimo di durata delle misure protettive in 12 mesi, ma chiarisce altresì che:
- il computo della durata avverrà a partire dall’attivazione della misura protettiva e fino alla omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza o all’apertura della procedura di insolvenza;
- nella durata verranno computati tutti i periodi di attivazione delle misure, anche se non continuativi e anche se frutto di eventuali rinnovi o proroghe;
- il limite massimo verrà computato tenendo conto anche delle misure protettive attivate durante la fase di negoziazione assistita.
Infine, va rilevato che l’articolo 8, Codice, stabilisce una durata massima delle sole misure protettive, sicché la norma autorizza a ritenere le misure cautelari non soggette a un termine massimo di durata. La delicata questione interpretativa è tuttavia aperta.
Il procedimento di concessione delle misure cautelari e protettive
Le regole processuali in materia di misure cautelari e protettive sono contenute nell’articolo 55, Codice.
Il comma 1 attribuisce la competenza alla trattazione delle misure al giudice davanti al quale è aperto il giudizio per la dichiarazione di liquidazione giudiziale o davanti al quale è stata presentata una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi. Il Tribunale procede in composizione monocratica, in persona del magistrato designato alla trattazione del procedimento di regolazione della crisi.
Ai sensi del comma 2, articolo 55, Codice, per l’adozione delle misure cautelari (articolo 54, comma 1, Codice), delle misure protettive non tipiche e temporaneamente utili (articolo 54, comma 2, terzo periodo, Codice) e delle misure correlate al pre-accordo di ristrutturazione (articolo 54, comma 3, Codice), il giudice procede nel contraddittorio delle parti ma “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio” e procedendo agli “atti di istruzione indispensabili in relazione alla misura richiesta” senza particolari formalità. Se la convocazione delle parti possa pregiudicare l’attuazione del provvedimento, il giudice provvede con decreto motivato “inaudita altera parte”, in tal caso fissando con il decreto stesso l’udienza di comparizione delle parti avanti a sé, ove già non disposta ai sensi dell’articolo 41, Codice, assegnando all’istante un termine perentorio non superiore a 8 giorni per la notifica del ricorso e del decreto. All’udienza il giudice conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto.
Le misure disposte perdono efficacia con l’omologa degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza o con la sentenza che apre la liquidazione giudiziale.
I provvedimenti sono impugnabili con reclamo ai sensi dell’articolo 669-terdecies, c.p.c.; la decisione assunta sul reclamo non è ricorribile per cassazione in quanto questi provvedimenti sono tipicamente provvisori e non decisori.
Di contro, i provvedimenti cautelari non debbono essere seguiti, a pena di inefficacia, dall’introduzione di un giudizio di merito (ex articoli 669-octies e 669-nonies, c.p.c.), questo essendo già il “procedimento unitario” in cui si innesta l’incidente cautelare.
Giusta il comma 3, articolo 55, Codice, il procedimento per la conferma o revoca delle misure protettive tipiche (di cui all’articolo 54, comma 2, primo e secondo periodo, Codice) non contempla l’audizione delle parti, potendo il giudice provvedere “assunte, ove necessario, sommarie informazioni”. In ogni caso, tali misure non possono avere una durata eccedente i 4 mesi, ma il Tribunale, su istanza del debitore o di un creditore e acquisito il parere del commissario giudiziale, se nominato, può prorogare, in tutto o in parte, la durata delle misure concesse nel rispetto del termine massimo di 12 mesi, “se sono stati compiuti significativi progressi nelle trattative sul piano di ristrutturazione e se la proroga non arreca ingiusto pregiudizio ai diritti e agli interessi delle parti coinvolte” (comma 4).
Le misure protettive perdono efficacia:
a) se revocate dal giudice in occasione del procedimento di conferma o revoca di cui al comma 3, articolo 55, Codice;
b) con l’omologa dello strumento di regolazione o quando viene aperta la liquidazione giudiziale (ultima parte dei commi 2 e 3);
c) quando il giudice designato non provvede entro i trenta giorni successivi alla sua designazione, potendo in tal caso il debitore ripresentare la domanda (terzo periodo del comma 3);
d) quando il Tribunale revoca o modifica le misure protettive in quanto accerta atti in frode (comma 5, parte prima), ovvero quando accerta che le misure protettive concesse “non soddisfano più l’obiettivo di agevolare le trattative” (comma 5, ultima parte).
In caso di revoca o cessazione delle misure protettive, il divieto di acquisire diritti di prelazione, se non concordati con l’imprenditore, viene meno a far data dalla revoca o dalla cessazione delle misure protettive (comma 7).
Considerazioni conclusive
Il “procedimento unitario” è elemento che caratterizza, più di ogni altro, l’assetto che il Codice ha inteso conferire ai multiformi strumenti, in esso previsti, volti alla gestione del fenomeno della crisi e dell’insolvenza, secondo un criterio gerarchico chiamato a privilegiare gli strumenti di tipo “conservativo” rispetto a quelli schiettamente “liquidatori”.
La complessità delle regole procedurali riflette la pervadente articolazione dei singoli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, tuttora sotto i riflettori del Legislatore riformista in sede di stesura del terzo Decreto “correttivo”, che dovrebbe vedere la luce nei prossimi mesi.
A un tempo, le norme sul procedimento unitario debbono contribuire a delineare e sorreggere un solco di equilibrio, nell’aspro conflitto di interessi tra debitore e creditori, volto a salvaguardare i valori produttivi e occupazionali dell’impresa decotta.
Sono questi obiettivi ambiziosi e difficili, ma la strada è tracciata e il tempo e l’esperienza dei Tribunali diranno se la direzione imboccata è quella giusta.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Crisi e risanamento”.