Il professionista deve sempre agire nel rispetto della legge?
di Comitato di redazioneL’approssimarsi del termine ultimo per la predisposizione dei bilanci e delle dichiarazioni dei redditi fa spesso insorgere un quesito di assoluta attualità: quale è il corretto comportamento che il professionista deve assumere qualora il proprio cliente gli domandi di fare “uno strappo alla regola” rispetto alle regole imposte dalla normativa?
È fuori ombra di dubbio che compito deontologicamente corretto del professionista è quello di:
- individuare la corretta normativa di riferimento;
- applicare detta normativa al caso di specie del contribuente;
- nel caso di eventuali dubbi, scegliere il comportamento più rassicurante che possa limitare eventuali danni in capo al cliente.
Se quanto sopra è chiaro, dobbiamo però chiederci quale sia il corretto comportamento nel caso in cui il cliente richieda espressamente al professionista di “allontanarsi” dalle corrette regole previste dalla norma.
Sono ovviamente possibili due approcci:
- un primo di natura rigida e formale: dissuadere il cliente da tale comportamento (palesemente errato), finanche a giungere a negare la prestazione nel caso in cui non si riesca a trovare un accordo;
- un secondo di natura più pragmatica: posto che la paternità del bilancio o della dichiarazione è comunque attribuibile al contribuente, dopo avere consigliato al meglio, si accoglie la specifica richiesta del cliente, ammonendolo sulle possibili conseguenze negative che posso derivare da tale scelta.
Così inquadrata, la tematica non sembra completamente strana; tuttavia, aspetti di difficoltà emergono laddove il cliente, subendo una eventuale contestazione da parte (ad esempio) della Amministrazione finanziaria, decida di promuovere una causa per chiedere al professionista il risarcimento del danno subito.
È possibile tale evenienza anche se il cliente era perfettamente informato?
Per fornire una risposta a tale interrogativo, appare indispensabile richiamare alcuni approdi giurisprudenziali.
In primis, una “delicata” sentenza della Cassazione (n. 9916/2010), con la quale è stata riconosciuta sussistente la responsabilità da inadempimento contrattuale a carico di un professionista che aveva compilato la dichiarazione di un contribuente deducendo costi non documentati, costi non di competenza, e ritenendo non applicabile un certo tributo, nonostante le condizioni di esonero sussistessero solo per una parte d’anno.
Dalla lettura della pronuncia, sia pure senza un dettaglio approfondito, i Giudici peraltro affermano incidentalmente che il professionista non sia riuscito a dimostrare l’accordo con il cliente per assumere il comportamento adottato; in ogni caso (e questo dici pare dirimente) quell’accordo – anche ove fosse stato presente – sarebbe nullo in quanto in frode alla legge.
Il principio sembra dunque chiaro: la diligenza richiesta al professionista nello svolgimento dell’incarico è tale per cui non possono essere disapplicate le disposizioni normative vigenti. Quindi, accettare la richiesta del cliente significa esporsi ad una possibile responsabilità.
Tale approccio, tuttavia, non è l’unico che si rinviene nella giurisprudenza. Anzi, i più recenti approdi – sia pure di merito – conducono a conclusioni del tutto opposte (si veda Tribunale di Firenze 03-09.2014).
Nel caso di un consulente del lavoro, è stata ritenute assente qualsiasi responsabilità professionale attinente l’errato calcolo dei contributi INPS, ove tale “errore” sia stato richiesto direttamente dal cliente, opportunamente informato delle possibili conseguenze sanzionatorie (circostanza, quest’ultima, dimostrata in corso di causa con l’ammissione della testimonianza di un collaboratore dello studio professionale stesso).
Come si vede – sia pure con differente “peso” giuridico – l’approccio dei Giudici risulta diametralmente opposto:
- per la Cassazione, il professionista non potrebbe mai sbagliare, ove l’errore sia consapevole ed addirittura richiesto dal contribuente;
- per i Giudici di merito, invece, l’unico vero obbligo del professionista sarebbe quello di informativa del cliente in merito alla non correttezza del comportamento che intende assumere, alla possibilità di subire sanzioni ed al corretto comportamento che si dovrebbe tenere.
Ed allora, che fare in questi casi?
La soluzione ufficiale non pare esistere, anche se a nostro giudizio risulta assolutamente più condivisibile la seconda tesi, in quanto:
- valorizza la diligenza del professionista, gravando sul medesimo l’onere di informativa in merito al corretto trattamento da riservare alla fattispecie, con l’aggiunta della indicazione delle sanzioni che si possono subire;
- tiene conto che l’atto (bilancio, dichiarazione, adempimento fiscale, ecc.) deve essere correttamente ricondotto – in primis – al contribuente; intravvedere nel professionista una sorta di “paladino” delle casse dell’Erario sembra, onestamente, eccessivo.
A conclusioni completamente difformi si dovrebbe invece giungere nei casi in cui sia il medesimo professionista a suggerire al cliente comportamenti anomali per ridurre (ad esempio) il carico fiscale di periodo.
La tematica risulta talmente delicata che sarebbe davvero opportuno un intervento di chiarificazione, anche in merito alla opportunità ed alla valenza di redigere apposite “manleve” che rimangono in precario equilibrio tra il pregio di poter dimostrare che l’input è proveniente dal cliente e la negatività di “certificare” il fatto che il professionista fosse a conoscenza dell’errore.