23 Febbraio 2016

Il riaddebito spese tra professionisti nel regime forfettario

di Fabio Pauselli
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Il nuovo regime forfettario porta con sé moltissime novità e criticità che, man mano, emergono nell’applicarlo ai vari casi di studio. La forfettizzazione del reddito può favorire quei professionisti che hanno pochissimi costi e che fatturano, principalmente, a un unico committente (il classico caso è il professionista che fattura allo studio associato o al titolare di studio). In questi casi, conti alla mano, il 22% di costi potrebbe rappresentare un ottimo “bonus”, considerando che questi:

  • non devono essere dimostrati, così come avviene nella classica determinazione analitica del reddito;
  • non soggiacciono a limitazioni, così come succede per i costi relativi a beni e/o servizi ad uso promiscuo;
  • sono sempre inerenti, intendendosi con questo che non potranno mai essere contestati circa la loro inerenza o meno con l’attività svolta.

Per ciò che concerne l’erario, sarebbe da valutare se il (presunto) vantaggio in termini di “cassa” nell’istituire un regime forfettario non venga vanificato, poi, da una mancata emersione generale di ricavi, considerato che la vasta platea dei forfettari, rispetto ai vecchi minimi, non dovrà preoccuparsi né di documentare i propri costi né di dover procedere ad un calcolo analitico del reddito. Sul fronte contribuente, invece, alcune casistiche meritano di essere analizzate con accortezza, al fine di non trovarsi impreparati nell’applicare il nuovo regime forfettario.

Si pensi al seguente caso. Uno studio professionale con utenze e contratto di locazione intestate al singolo professionista il quale è solito fatturare, quale mero rimborso, le rispettive quote agli altri colleghi. In una situazione normale di determinazione del reddito, non ci sarebbero problemi: con un fatturato pari a 24.000, di cui 6.000 per i suddetti rimborsi e spese per 9.000, l’effetto dei rimborsi sul fatturato verrebbe totalmente neutralizzato dalla deduzione analitica dei costi sostenuti. Viceversa, ove lo stesso professionista si trovasse nella medesima situazione ma all’interno del regime forfettario, a fronte di un fatturato di 24.000 dovrebbe dichiarare un reddito imponibile che, al proprio interno, include anche dei meri rimborsi, i quali sarebbero neutralizzati soltanto parzialmente dalle percentuali stabilite nel nuovo regime fiscale.

Come noto, l’Agenzia delle Entrate ha più volte optato per un’interpretazione estensiva della nozione di “compenso” di cui all’art. 54 del TUIR, tendente a una sostanziale onnicomprensività reddituale di tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta e in relazione al rapporto di lavoro, eccezion fatta per le mere anticipazioni in nome e per conto.

La stessa Agenzia delle Entrate, tuttavia, nella Circolare 38/E/2010, ha avuto modo di precisare che, ai fini reddituali, le somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti per l’uso comune degli uffici, non costituisce reddito di lavoro autonomo e, quindi, non rileva quale componente positivo di reddito.

Tale precisazione fornita dall’AdE dovrebbe essere risolutiva nell’ambito del regime forfettario, andando a risolvere le storture appena evidenziate; non rilevando quali componenti positivi di reddito e non costituendo reddito da lavoro autonomo, trattandosi, piuttosto, di minori costi, i meri rimborsi spese tra professionisti potranno essere esclusi dal computo del reddito forfettario.

In forza di tale ragionamento si potrebbe utilizzare la stessa interpretazione anche nell’ambito della limitazione dei 30.000 euro: non trattandosi di componenti positivi di reddito, tali rimborsi dovrebbero essere esclusi ai fini della verifica annua del “valore – soglia” dei ricavi.