Il rimborso dell’IVA non dovuta
di Marco PeiroloIl cessionario o committente nei cui confronti il cedente o prestatore abbia erroneamente esercitato la rivalsa dell’IVA per un’operazione esente, non imponibile o non soggetta ad imposta non ha titolo per esercitare il diritto di detrazione.
Al divieto di detrazione per il cliente, costantemente ribadito dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza, si aggiunge l’obbligo del fornitore, previsto dall’art. 21, comma 7, del D.P.R. n. 633/1972, di versare all’Erario l’imposta indebitamente applicata in fattura.
Secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, il rapporto esistente tra il cedente o prestatore e l’Amministrazione finanziaria, riguardante l’imposta addebitata in fattura, ha carattere tributario, mentre il rapporto tra il cedente o prestatore e il cessionario o committente, conseguente all’esercizio della rivalsa dell’imposta, ha natura privata.
In pratica, il cliente intrattiene un rapporto di natura tributaria solo con l’Amministrazione finanziaria, che ha origine con l’esercizio della detrazione.
Nel rapporto tributario tra il fornitore e l’Amministrazione finanziaria, il primo può chiedere, attraverso la procedura di cui all’art. 21, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, il rimborso dell’IVA non dovuta, mentre l’Amministrazione finanziaria, in considerazione del rapporto tributario intrattenuto con il cliente, può recuperare a tassazione l’IVA illegittimamente detratta.
La natura privatistica del rapporto di rivalsa dà, tuttavia, diritto al cessionario o committente di recuperare l’imposta illegittimamente corrisposta alla controparte, promuovendo, nei confronti del cedente o prestatore, l’azione di indebito oggettivo di cui all’art. 2033 c.c., finalizzata ad ottenere la restituzione dell’imposta versata in aggiunta al corrispettivo dell’operazione e soggetta al termine di prescrizione decennale.
Di regola, il cedente o prestatore promuove l’istanza di rimborso di cui al citato art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992 dopo che sia decorso il termine annuale previsto, per la variazione in diminuzione, dall’art. 26, comma 3, del D.P.R. n. 633/1972.
Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto che la mancata attivazione della procedura di variazione fa venire meno solo il diritto a recuperare il credito mediante l’esercizio della detrazione, senza precludere la possibilità di ottenere il rimborso della maggiore imposta, indebitamente versata, in quanto la rettifica diminutiva rappresenta una modalità di recupero dell’imposta illegittimamente corrisposta all’Erario rimessa alla libera scelta del contribuente, il quale può pertanto optare per l’azione generale di rimborso (Cass., 21 aprile 2006, n. 9437 e Id., 9 marzo 2005, n. 5094).
La Corte di giustizia, con la sentenza di cui alla causa C-427/10 del 15 dicembre 2011, ha affermato che l’intervenuta decadenza dell’azione di rimborso non impedisce al fornitore di ottenere dall’Amministrazione finanziaria il rimborso dell’IVA se la richiesta ha per oggetto l’imposta che egli stesso ha dovuto rimborsare al cliente.
Da tale conclusione, la Corte di Cassazione ha dedotto che il fornitore, dopo la scadenza del termine di decadenza previsto per l’azione di rimborso, può chiedere la restituzione non già per qualsiasi imposta della quale il cliente possa pretendere il rimborso in considerazione della qualità di cedente o prestatore della controparte, né per quella che egli abbia rimborsato spontaneamente, ma esclusivamente per quell’imposta che il fornitore ha dovuto rimborsare al cliente in esecuzione di un provvedimento coattivo di rimborso (Cass., 24 febbraio 2015, n. 3627; Id., 10 dicembre 2014, n. 25988; Id., 20 luglio 2012, n. 12666).
Tuttavia, dalla lettura della pronuncia della Corte di giustizia precedentemente richiamata non è dato desumere che il rimborso sia subordinato all’esistenza di un provvedimento coattivo. Nel caso risolto dai giudici comunitari, quest’ultimo c’è stato, per cui la tutela dei princìpi di neutralità e di effettività ha imposto che al fornitore fosse riconosciuto il diritto di rimborso anche una svolta scaduto il termine decadenziale, ma v’è da ritenere che – anche in assenza di un siffatto provvedimento che avesse ordinato al prestatore di restituire l’IVA indebitamente applicata in fattura – l’esigenza di garantire il rispetto dei citati princìpi comunitari avrebbe giustificato la stessa conclusione, in specie una volta eliminato completamente il rischio di perdita di gettito per l’Erario.
La sentenza deve essere, pertanto, letta alla luce delle interpretazioni emergenti dall’elaborazione giurisprudenziale che esigono il riconoscimento del diritto di rimborso una volta eliminato completamente il rischio di perdita di gettito (Corte di giustizia, 11 aprile 2013, causa C-138/12 e Id., 23 aprile 2015, causa C-111/14).
Di conseguenza, non è lecito teorizzare che la Corte di giustizia, nel rapporto “tributario” tra il fornitore e l’Amministrazione finanziaria, abbia inteso escludere il rimborso nel caso in cui l’imposta sia stata restituita al cliente spontaneamente, anziché a seguito di un provvedimento coattivo, siccome la particolare “cautela” imposta dai giudici di legittimità – vale a dire il richiamo al “dovere” di rimborso – risulta esclusivamente finalizzata ad evitare la perdita di gettito in capo all’Erario che si concretizzerebbe qualora al fornitore fosse restituita un’imposta che il cliente ha detratto e che, eventualmente, l’Amministrazione finanziaria non ha più potere di recuperare a tassazione in ragione dell’intervenuta decadenza dell’azione di accertamento.