Una vexata quaestio, spesso sottoposta allo scrutinio della Corte di Cassazione, concerne l’adeguato assolvimento da parte dell’Agenzia delle Entrate dell’onere della prova sulla stessa gravante in relazione all’inesistenza soggettiva delle operazioni oggetto delle riprese fiscali.
Ebbene, con particolare riguardo alla ripartizione dell’onere probatorio, mette conto rilevare che l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente (Cfr., Cass. n. 9851/2018).
Ne discende che, ove l’Amministrazione abbia assolto a tale onere istruttorio, graverà sul contribuente fornire la prova contraria della propria estraneità ai fatti contestati e, in particolare, quella di «aver adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto» (Cfr., Cass. n. 9851/2018).
Sul punto, è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con ordinanza n. 33320 del 17.12.2019, ove ha ritenuto che la pronuncia di secondo grado non si sia uniformata alle suddette coordinate ermeneutiche, giacché la CTR competente non ha indicato, nello specifico, le ragioni per cui gli amministratori della società contribuente sapevano o avrebbero dovuto sapere che si trattava di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.
Più precisamente, i giudici di legittimità hanno affermato che: «il rinvenimento degli assegni – di importo assai modesto rispetto all’entità della frode prospettata – risulta dato indiziario non univoco, che, in mancanza di ulteriori riscontri, non è di per sé dotato dei requisiti di gravità, della precisione e della concordanza necessari a ritenere raggiunta la prova presuntiva della conoscenza da parte del legale rappresentante della società della diversa provenienza, “in nero”, dei materiali apparentemente forniti [dalla società] ed a giustificare, pertanto, l’inversione dell’onere probatorio».
Ed invero, i giudici di appello avevano fondato il proprio convincimento unicamente sul fatto che presso la società “cartiera” erano stati rinvenuti degli assegni, che la GdF aveva ipotizzato essere delle garanzie per la restituzione delle somme fittiziamente indicate a debito nelle false fatture oggetto di contestazione.
In altri termini, il giudice di merito aveva ritenuto che l’elemento di prova della effettiva conoscenza da parte degli amministratori della società contribuente dell’inesistenza soggettiva delle operazioni fatturate fosse rappresentata dall’emissione di assegni per un importo pari ad euro 2.000.000.
In definitiva, sulla base delle ragioni non appena esposte, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla CTR Emilia Romagna, in diversa composizione, per un nuovo esame della fattispecie.