L’articolo 303, comma 3, TULD, contenente un sistema sanzionatorio a scaglioni, stabilisce che se i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza dei diritti supera il cinque per cento, la sanzione amministrativa, qualora il fatto non costituisca più grave reato, è applicata come segue:
a) per i diritti fino a 500 euro si applica la sanzione amministrativa da 103 a 500 euro;
b) per i diritti da 500,1 a 1.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 1.000 a 5.000 euro;
c) per i diritti da 1000,1 a 2.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro;
d) per i diritti da 2.000,1 a 3.999,99 euro, si applica la sanzione amministrativa da 15.000 a 30.000 euro;
e) per i diritti pari o superiori a 4.000 euro, si applica la sanzione amministrativa da 30.000 euro a dieci volte l’importo dei diritti.
Il punto di attrito tra la norma interna e quella unionale, decodificato dalla Corte UE e dalle Corti interne nel senso di un “dovere” di proporzionalità della sanzione, sta nell’assenza di un impianto sanzionatorio unionale comune per gli Stati membri, i quali se da un lato sono “liberi” di applicare le sanzioni per loro più appropriate, dall’altro devono però necessariamente coordinare e calibrare tale diritto con l’articolo 42 Regolamento UE 952/2013 (CDU), il quale impone agli Stati membri di prevedere sì sanzioni applicabili in caso di violazione della norma doganale, ma che siano “effettive, proporzionate e dissuasive” rispetto alle violazioni commesse dal contribuente in linea di dogana.
Già nel precedente n. 25509/2019 la Cassazione prendeva atto della sproporzione della sanzione di euro 20.128,75 richiesta dalla Dogana, a fronte di maggiori dazi doganali ed Iva per errata indicazione della quantità e del valore dichiarati per complessivi euro 778,67.
A fronte del convincimento della Dogana dell’inapplicabilità dell’istituto del cumulo giuridico della sanzione di cui all’articolo 12 D.Lgs. 472/1997, a favore del cumulo materiale, “giustificato” dall’esistenza nella dichiarazione doganale di più articoli (singoli), da cui sarebbe derivata la sussistenza di distinte violazioni, di contro la Corte nel precedente del 2019 coerentemente sosteneva l’applicabilità dell’ipotesi del concorso formale omogeneo, “dal momento che ogni violazione realizzata dall’operatore nella dichiarazione doganale è il risultato di un’unica azione, di una sola condotta materiale, ossia la presentazione della dichiarazione doganale”.
Da ciò conseguiva il riconoscimento dell’irrogabilità di un’unica sanzione per la violazione più grave aumentata da un quarto al doppio in applicazione del regime del cumulo giuridico, sia nel caso di più violazioni dell’articolo 303 T.U.L.D. nella medesima dichiarazione, sia anche nell’ipotesi di più violazioni realizzate in diverse dichiarazioni doganali a loro volta riconducibili ad un’unica dichiarazione (c.d. dichiarazione cumulativa).
La Cassazione lì, condivisibilmente, richiamava la giurisprudenza comunitaria la quale metteva in rilievo che, sebbene gli Stati membri potessero adottare sanzioni, per l’ipotesi di inosservanza di obblighi miranti a garantire la corretta riscossione dell’imposta e ad evitare la frode, queste ultime non potevano, nondimeno, eccedere quanto necessario al raggiungimento dello scopo perseguito (citava CGUE C-438/09, Dankowski, p. 37; C-284/11, EMS-Bulgaria Transport, p. 67 e 75 e C-272/13, Equoland).
La Corte, quindi, alla ricerca di un “idoneo bilanciamento tra l’interesse a sanzionare e il diritto a non essere eccessivamente sanzionati” e nel rispetto della normativa unionale, concludeva che “pur in presenza di una dichiarazione cumulativa, il superamento della soglia del 5% vada verificato, secondo quanto previsto dall’articolo 303 T.U.L.D., “complessivamente”, ovvero avuto riguardo all’insieme delle singole partite di merci contenute nell’ambito dell’unica dichiarazione, e non già rispetto a ciascuna partita”.
A distanza di tre anni dall’ultimo intervento in materia, la Cassazione, con l’ordinanza n. 14908/2022, pur senza richiamare il proprio precedente avanti citato, riprende di fatto le conclusioni lì sviluppate, poggiando però le proprie argomentazioni esclusivamente sui principi forniti in materia nel tempo dalla Corte di Giustizia in tema di proporzionalità della sanzione doganale, la quale non può mai eccedere quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione dei tributi ed evitare l’evasione.
Il principio di proporzionalità della sanzione è stato analizzato e declinato dalla Corte UE, sin dal precedente C-157/79, in vari settori, legandosi a sua volta, ad esempio, tanto al rispetto della libertà di circolazione dei lavoratori quanto della libera circolazione delle merci all’interno dell’UE, libertà tutelata dall’articolo 28 del TFUE (v. C-299/86, p. 23 e C-312/91, p. 15), quanto ancora al divieto di sanzioni applicate in maniera forfettaria (v. 262/99, p. 69 e C-210/10, p. 41) piuttosto che al rispetto del principio fondamentale del diritto alla detrazione dell’Iva (v. C- 25/07, p. 23), esigendosi sempre, da parte della Corte UE, la calibrazione della sanzione in relazione alla natura ed alla gravità dell’infrazione che detta sanzione mira a penalizzare, nonché alle modalità di determinazione dell’importo della medesima (v. C-272/13, p. 35 e C‑564/15, p. 60).