Il ruolo del professionista nella frode fiscale
di Marco BargagliCome noto, ai fini penali – tributari l’articolo 2 D.Lgs. 74/2000 (rubricato dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), sanziona con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi che consentono di ridurre la base imponibile.
Simmetricamente, sono previste specifiche sanzioni penali anche per colui che emette fatture per operazioni inesistenti e, in particolare, la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni nei confronti del soggetto che, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 8 D.Lgs. 74/2000).
Con specifico riferimento al ruolo del consulente fiscale che partecipa a una frode fiscale finalizzata a evadere le imposte, il legislatore ha contemplato ulteriori responsabilità penali avuto riguardo alle seguenti disposizioni:
- articolo 110 c.p., a mente del quale “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questa stabilita”;
- articolo 13-bis D.Lgs. 74/2000, che prevede una specifica circostanza aggravante del reato, tenuto conto che le pene stabilite per alcuni delitti (es. quelli previsti in materia di dichiarazione e di documenti e pagamento di imposte) sono aumentate della metà se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale.
Per circoscrivere la responsabilità penale del professionista, occorre che lo stesso attui un “comportamento attivo” che determini un contributo fondamentale per la realizzazione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti e che, per effetto della sua condotta, abbia aumentato la possibilità della commissione del reato (cfr. ex multis, Corte di cassazione sentenza n. 4383 del 10.12.2013).
Quindi, per far scattare la responsabilità penale del consulente fiscale, è necessario raccogliere un preciso quadro probatorio idoneo a dimostrare che egli abbia organizzato e fattivamente partecipato alla frode fiscale.
In relazione alla responsabilità penale del professionista, è recentemente intervenuta la Corte di cassazione, sezione 3^ penale, con la sentenza n. 28158/2019 emessa in data 29.03.2019.
La suprema Corte di cassazione ha sancito che il consulente fiscale può rispondere, in concorso con il proprio cliente, del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti qualora emerga che, anche sulla scorta di intercettazioni telefoniche, il commercialista era a conoscenza della frode fiscale.
A parere degli Ermellini, per l’individuazione delle modalità di partecipazione concorsuale nel reato secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale, “fermo restando l’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti”
Quindi, per individuare la colpevolezza che integra l’elemento soggettivo del reato, è ormai pacifico e incontestato l’indirizzo secondo cui il “dolo specifico” richiesto per integrare il delitto di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, ex articolo 2 D.Lgs. 74/2000, è compatibile con il “dolo eventuale”, ravvisabile nell’accettazione del rischio che la presentazione della dichiarazione dei redditi, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva.
Nel caso sottoposto al vaglio dei Supremi giudici il consulente fiscale:
- era a conoscenza di plurime anomalie concernenti la contabilità di una società di capitali, emerse nel corso di mirati accertamenti espletati dalla Guardia di Finanza;
- era altresì informato sia dell’omessa istituzione e tenuta della contabilità di magazzino, sia dell’irregolare tenuta del registro degli inventari, anche perché queste gravi violazioni erano periodicamente segnalate dal collegio sindacale, con il quale egli era in continuo contatto e al quale forniva documentazione.
Tali elementi probatori, erano chiaramente emersi nel corso delle indagini e, in particolare, dalle numerose conversazioni telefoniche intercettate che confermavano la piena consapevolezza e il coinvolgimento del ricorrente in ordine alla pratiche illecite.
Infine, giova ricordare che il medesimo consulente fiscale, come da lui stesso ammesso, aveva materialmente predisposto ed inoltrato la dichiarazione fiscale utilizzando fatture per operazioni inesistenti dalle quali erano scaturiti elementi passivi fittizi e la correlata Iva indebitamente detratta, sebbene «le conclamate modalità truffaldine di gestione contabile della società erano state acclarate, certificate e comunicate dalla Guardia di Finanza attraverso la verifica fiscale del luglio 2011».
In definitiva, i Giudici di piazza Cavour hanno individuato il contributo causale del consulente che si è esplicato sotto un duplice profilo:
- compimento delle azioni costituite dalla predisposizione e dall’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale;
- attività di supporto per la sistemazione documentale di gravi violazioni contabili: in particolare, la preoccupazione di «giustificare che la merce sta qua nel capannone, […] che ci stanno tutti questi movimenti e tutto il resto», o l’attivazione nel predisporre e «far passare» contratti, risultanti dalle conversazioni telefoniche intercorse con il coimputato, che risultano obiettivamente funzionali a supportare e rendere attendibili le fatture mendaci registrate in contabilità, successivamente confluite nelle dichiarazioni annuali dei redditi.
In buona sostanza, anche per quanto attiene il profilo della colpevolezza sono emersi molteplici indizi correttamente valorizzati per evidenziare la sussistenza del dolo richiesto per l’integrazione del reato, quanto meno sotto forma del “dolo eventuale”.