Il ruolo della contrattazione collettiva dopo il D.Lgs. 81/2015
di Luca VannoniIl D.Lgs. 81/2015, nel realizzare il proprio disegno di riordino delle tipologie contrattuali, in molti passaggi ha modificato il ruolo e le possibilità di intervento della contrattazione collettiva rispetto alla normativa previgente. In sintesi, possiamo riepilogare secondo tre distinte direttrici la portata della riforma:
- nuove possibilità di intervento nella regolamentazione dei rapporti di lavoro subordinato e parasubordinato;
- previsione di standard legali sostitutivi e cedevoli rispetto alla contrattazione collettiva;
- abrogazione di deleghe generiche alla contrattazione collettiva.
In un’ottica sistematica, particolarmente incisivo è stato l’intervento operato, di cui è fondamentale individuare non solo le nuove possibilità di regolamentare i rapporti di lavoro in modalità più adesive alle necessità produttive e organizzative, ma anche le materie dove l’intervento della contrattazione collettiva è stato definito in modo più specifico o addirittura limitato, ovvero reso non necessario, in virtù della disciplina alternativa.
Ad ogni modo, entrando nel merito dell’analisi, il punto di partenza è rappresentato da quanto disposto dall’art. 51 del D.Lgs. 81/2015: salvo diversa previsione, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali (RSA o RSU).
Tale norma fissa un’importante regola generale, che parifica i livelli della contrattazione ogni qual volta il D.Lgs. 81/2015 rimanda a tale fonte, a meno che sia espressamente fissato un livello diverso, quello nazionale. Inoltre, legittima espressamente i contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale sia con le rappresentanze interne sia con organizzazioni territoriali, prassi che si realizza quando non sono presenti in azienda rappresentanze sindacali: sostanzialmente erano strade già conosciute, ma che ora trovano evidenza in un dato normativo espresso. Le sigle firmatarie sindacali, inoltre, devono soddisfare il requisito della rappresentatività comparata sul piano nazionale.
Qualche breve considerazione è dovuta anche in riferimento alla contrattazione di prossimità prevista dal DL 138/2011, art. 8. In virtù del principio di successione nelle leggi nel tempo, si ritiene che non si possa intervenire con la contrattazione di prossimità ogni qual volta il D.Lgs. 81/2015 fissa il livello nazionale come quello destinato a regolamentare determinate discipline.
Vediamo i principali ambiti di intervento.
Come è ormai noto, il D.Lgs. 81/2015 ha abrogato la disciplina del lavoro a progetto, sostituendola con una disciplina molto più restrittiva.
A temperare la rigidità della previsione, il comma 2 dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 prevede importanti eccezioni: oltre alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali (con iscrizione all’albo), alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo e alle collaborazioni in favore di società sportive dilettantistiche, escluse, nella normativa previgente, dall’obbligo del progetto, sono escluse le collaborazioni regolamentate, sul piano economico e normativo, da accordi collettivi nazionali stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore.
La contrattazione collettiva, esclusivamente di carattere nazionale, nel momento in cui regolamenta la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative, ne esclude l’applicazione delle norme della subordinazione anche se svolte in modalità etero organizzate. Ora non resta che attendere gli eventuali sviluppi nelle relazioni sindacali. Al momento la contrattazione collettiva si è cimentata sulla materia solo in riferimento ai call center e nel terzo settore, dove l’applicazione degli accordi consente l’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative. È comunque opportuno ricordare che la legittimazione a utilizzare le collaborazioni non esclude il rischio che tali rapporti possano essere riqualificati se presentano le caratteristiche del lavoro subordinato.
Particolarmente interessante è analizzare l’impatto del decreto di riordino delle tipologie contrattuali in riferimento al contratto a tempo parziale. Innanzitutto si sottolinea come non sia più previsto un rinvio generale alla contrattazione collettiva per determinare “condizioni e modalità” della prestazione lavorativa part time.
L’assenza propone subito una riflessione in riferimento a quei settori dove la contrattazione collettiva ha introdotto limitazioni all’utilizzo del part time, come l’edilizia, con percentuali sui lavoratori a tempo pieno (e pesanti riflessi contributivi legati all’applicazione della contribuzione virtuale), ovvero ha fissato un numero minimo di ore settimanali.
Rimangono in vigore le disposizioni contrattuali che limita(va)no il lavoro a tempo parziale, ora che si è persa la delega generale alla contrattazione collettiva?
L’aver eliminato la possibilità di determinare “condizioni e modalità”, oltre a rafforzare le argomentazioni per la non applicazione dei limiti quantitativi, come nell’edilizia, legittima anche uno scostamento da eventuali limiti minimi orari previsti dalla contrattazione collettiva, soprattutto in quei casi dove l’orario ridotto sotto le soglie della contrattazione collettiva (es. 8 ore settimanali) potrebbe essere visto con favore sia dal datore di lavoro che dal lavoratore.
Riguardo al lavoro intermittente, viene mantenuta la centralità della contrattazione collettiva, a cui è demandata in prima battuta la definizione delle esigenze discontinue che legittimano l’utilizzo di tale contratto, anche in riferimento ai periodi predeterminati. Oltre a qualche modifica formale, ora è incontestabile che anche la contrattazione collettiva aziendale può individuare le condizioni di utilizzo del lavoro intermittente. Anche in questo caso, per non bloccare l’applicabilità di tale contratto, è stato confermato l’intervento sostitutivo mediante decreto del ministero del lavoro, in sostituzione del DM 23 ottobre 2004, che rimandava alla tabella allegata al Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657. La sostituzione tra i due decreti tecnicamente ha trovato un esito che ha destato qualche perplessità, in ordine alla possibilità di utilizzare il lavoro intermittente oggi in attesa del decreto ministeriale: si ritiene comunque, in attesa dei chiarimenti ministeriali, che il terzo comma dell’art. 55, del D.Lgs. 81/2015, in base al quale rimangono in vigore le disposizioni vigenti fino all’emanazione dei decreti richiamati, consenta nella fase attuale di utilizzare il lavoro intermittente nei casi individuati dal Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657.