Il terzo settore e lo sport tra profit e non profit
di Guido MartinelliL’esame del testo uscito dalle Commissioni del Senato per il voto in aula del disegno di legge delega per la riforma del terzo settore si caratterizza per non citare mai la parola sport. Questo produce immediatamente un dubbio: possiamo considerare ufficialmente ancora lo sport all’interno del c.d. “terzo settore”?
Il Presidente del Coni, in una recente intervista, è tornato sulla necessità di riformare la legge 91/1981 sul professionismo sportivo.
Questa doppia circostanza merita approfondimenti che non si possono esaurire in poche battute ma qualche spunto potremmo iniziare a formularlo.
Fu negli anni ottanta che maturarono le problematiche che costrinsero ben presto le istituzioni sportive, da un lato, a rivedere la tradizionale identificazione dello sport come attività meramente amatoriale, aprendo i primi spiragli a varie forme di redditività legata alle attività sportive ed il nostro legislatore, dall’altro, ad abbandonare la tradizionale posizione di agnostico disinteresse e ad emanare la legge n. 91/1981 sul professionismo sportivo. E fu proprio nel corso dell’iter di quella legge, tra l’altro, che i suoi estensori dovettero sperimentare la singolare riottosità della materia sportiva ad essere inquadrata in schemi giuridici, essendo, com’è noto, la scelta in favore della subordinazione il frutto del ribaltamento del testo originario, che aveva invece optato per la configurazione del professionismo sportivo come lavoro autonomo. Tant’è che si dovettero introdurre le eccezioni alle normative sul lavoro subordinato riportate ai commi 7, 8 e 9 dell’articolo 4 della legge 91/1981. L’articolo 1 divise il mondo dello sport in due grandi settori: il professionismo e il dilettantismo. Anche il primo, comunque, fino al 1996 rimase rigorosamente “non profit” (le società dovevano reinvestite tutti gli utili prodotti). Non vi era dubbio che, ab origine, l’intento fosse quello di effettuare una differenziazione di carattere economico, da una parte i soggetti che “vivevano di sport”, dall’altra gli amateurs.
Fu proprio la legge n. 91/1981, emanata per far emergere e disciplinare gli aspetti lavoristico-sportivi, a far nascere analoghe questioni anche per i dilettanti, posto che la stessa non ha affatto disciplinato il lavoro nello sport nella sua interezza, ma solo quello che si svolge nell’ambito delle quattro federazioni sportive rimaste con tale qualifica (calcio, ciclismo, golf, pallacanestro) secondo la originaria delibera del Consiglio Nazionale del CONI del 2 maggio 1988, Ecco allora che, accanto alle problematiche del dilettante in senso tradizionale, o se si preferisce del dilettante che gioca, di natura essenzialmente associativa, si pongono quelle del dilettante che lavora, o che comunque percepisce compensi, per il quale la qualifica formale che gli deriva dalla federazione di appartenenza non può certo precludere la valutazione sostanziale, in ambito statuale e comunitario, del rapporto che lo lega alla propria società con l’avvertenza, però, che il discrimen tra i due aspetti è facilmente individuabile solo sulla carta, a livello concettuale.
Il termine dilettante nella Carta Olimpica oggi non esiste più, ed attualmente la Regola 45 si limita a rimandare, per l’ammissione degli atleti ai giochi, alle “prescrizioni delle corrispondenti federazioni internazionali, mentre la norma di attuazione della medesima si limita solo ad affermare, invero sterilmente, che l’iscrizione e la partecipazione dei concorrenti non devono essere condizionate da considerazioni finanziarie, e che agli stessi è fatto divieto di pubblicizzare nomi e immagini, ……per il sol fatto che il relativo sfruttamento se lo è riservato il CIO”. La realtà è che lo status di dilettante, svuotato dei contenuti per cui era stato concepito appare ormai, com’è stato icasticamente osservato, “un relitto del sistema”. Tant’è che oggi il nuovo statuto del Coni utilizza il termine “non professionistico” al posto di dilettantistico. Già attualmente, del resto, lo status formale di dilettante non offre alcun parametro per risolvere questioni operative al di là dell’ambito meramente endoassociativo.
Ma se, ovviamente, da un certo livello di attività e di organizzazione, sembra ormai avviata la strada verso un allargamento dell’area professionistica, sia pure con regole modificate rispetto a quelle attuali, non potrà che conseguirne che gli enti collettivi che ne saranno protagonisti non potranno continuare ad essere con il “divieto di scopo di lucro anche indiretto”. Questo andrà a collidere con la previsione del primo comma dell’articolo 1 del disegno di legge sopra citato che testualmente riporta: “ Per Terzo settore si intende il complesso di enti privati costituiti per il perseguimento senza scopo di lucro di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”.
Un futuro dello sport fuori dal terzo settore?