Il trust e la certificazione antimafia che non c’è
di Sergio PellegrinoIl trust può essere utilizzato come strumento per consentire all’impresa di continuare a operare sul mercato, “sottraendo” la proprietà della società a quei soggetti sospettati di contiguità con la criminalità organizzata e facendo sì che possa così ottenere il certificato antimafia negato dal Prefetto per sospette infiltrazioni mafiose.
Un utilizzo “alternativo” del trust, non semplice però come vedremo da attuare all’atto pratico, è quello legato alle società che non possono partecipare ad appalti pubblici in quanto non rispettano la disciplina sulla certificazione antimafia.
La disciplina in questione è finalizzata ad evitare che società a rischio di “contiguità” con la criminalità organizzata abbiano la possibilità di aggiudicarsi appalti pubblici ottenendo ingenti risorse economiche.
Si tratta di una misura a carattere preventivo e quindi l’interdittiva prescinde dall’accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati poi dal Prefetto.
A livello normativo non sono ben definiti i criteri che fanno scattare l’indizio di pericolosità che legittima il Prefetto ad intervenire, ma dal punto di vista giurisprudenziale sono stati individuati alcuni elementi che devono essere presi in considerazione.
Innanzitutto la sussistenza di rapporti di parentela con soggetti malavitosi, il contesto in cui l’impresa opera, l’esistenza di legami commerciali con imprese considerate vicine alla criminalità organizzata, la presenza di dipendenti considerati appartenenti ad organizzazioni criminali.
Un elemento indiziario previsto a livello normativo riguarda invece l’eventuale modifica della compagine societaria o dell’organo amministrativo, che potrebbe essere proprio finalizzata ad eludere la problematica dell’acquisizione del certificato antimafia.
E proprio in quest’ottica si inserisce l’ipotesi dell’inserimento in trust di partecipazioni in società a rischio dal punto di vista della possibile infiltrazione mafiosa: questo per consentire all’impresa di continuare a operare sul mercato, ottenendo quel certificato antimafia che il Prefetto non concede fino a quando l’impresa rimane con gli assetti proprietari “sospetti” (o con nuovi assetti, ma non ritenuti “effettivi”).
Il tema è stato affrontato dal Consiglio di Stato nella nota sentenza n. 1386 del 7 marzo 2013, i cui tratti salienti è opportuno ripercorrere per comprendere se e quali siano le effettive possibilità di utilizzo del trust in questo contesto.
Il trust era stato istituito dai disponenti, come si evince dall’atto istitutivo, collocandovi le partecipazioni detenute in una società “al fine di salvaguardare l’avviamento della società e i posti di lavoro dei suoi dipendenti” affidandole alla gestione del trustee “che le gestisca in piena autonomia e prevenga il ripetersi di circostanze che possano far sospettare l’esistenza del pericolo di infiltrazioni mafiose” e che poi, al termine della durata del trust, destini le partecipazioni o il ricavato derivante dalla loro vendita ai discendenti dei disponenti.
Così facendo, il trust è divenuto socio unico della società a rischio di infiltrazione mafiosa e l’amministrazione della stessa è stata affidata ad un nuovo amministratore.
Tutte le figure coinvolte – trustee, guardiano e amministratore della società – sono state ritenute idonee; ciononostante il Comune di Gioia Tauro ha comunque risolto il contratto d’appalto che era stato in precedenza stipulato sulla base dell’informativa prefettizia e la giustizia amministrativa, dal Tar al Consiglio di Stato, hanno ritenuto di avallare questo tipo di decisione.
Non per l’inadeguatezza del trust come istituto – “… è indubbio, in astratto, che l’atto istitutivo del trust Tricalò, socio unico della Fravesa, non presterebbe in sé il fianco al pericolo di infiltrazioni della criminalità organizzata, venendosi a determinare un distacco della nuova compagine sociale da quella vecchia, anche considerata la qualità dei soggetti individuati come trustee e come guardiani, conformemente a quanto riconosciuto anche dai Carabinieri di Reggio delegati dal Prefetto per i nuovi accertamenti” -, ma semplicemente perché nella società rimanevano degli elementi che potevano far supporre che il rischio di infiltrazione mafiosa permanesse. In particolare si trattava della presenza, come dipendenti, di due figli dei disponenti e il fatto che la società partecipava a consorzi il cui amministratore era uno dei precedenti soci della società stessa (già interessato del primo provvedimento prefettizio).
Il trust può quindi essere utilizzato validamente per “isolare” la società considerata “a rischio”, ma, alla luce della grande discrezionalità lasciata dalla normativa a prefetti e giudici, finalizzata a contrastare nel modo più efficace una minaccia così importante, la strada non è certo semplice ed è probabile che comunque vi sia una naturale “diffidenza” verso una soluzione di questo tipo.
Per confidare nella possibilità di ottenere il risultato sperato, e cioè consentire alla società di ottenere (o mantenere) gli appalti pubblici, è necessario, non solo che vengano scelti professionisti al di sopra di ogni “sospetto” (e che siano disponibili ad assumere un incarico così delicato), ma anche che nella società vengano rimossi tutti gli elementi esistenti di criticità: cosa naturalmente non semplice e la cui effettiva realizzazione può essere valutata soltanto ex post, sulla base della valutazione di Prefetto e giustizia amministrativa, tenendo conto di quella che la stessa sentenza ci ricorda essere la “logica indiziaria richiesta per l’informativa antimafia”.
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