Il trust liquidatorio
di Sergio PellegrinoContinuando nella nostra analisi dei possibili utilizzi del trust, soffermiamoci in questo contributo sul trust liquidatorio e sulla sua possibile funzione nell’ambito della gestione della crisi d’impresa.
Negli ultimi anni il trust ha avuto un significativo impiego anche nella gestione della crisi d’impresa, in particolare attraverso i c.d. trust liquidatori.
Con il termine trust liquidatorio si intende quel rapporto giuridico in cui un soggetto, che non necessariamente deve essere una persona fisica, ben potendo essere anche una società, dispone in trust il proprio patrimonio o parte di esso con l’obiettivo di soddisfare i creditori con i proventi della liquidazione.
Il trust potrebbe essere strutturato come trust con beneficiari, individuando come tali i creditori, ovvero come trust di scopo, perseguendo in questo caso la finalità di soddisfare i creditori del disponente.
Il trust liquidatorio in realtà si presta a realizzare diversi obiettivi a seconda della “condizione” in cui si trova l’impresa.
Se la situazione è di difficoltà da un punto di vista finanziario, ma l’impresa è in bonis, il trust può rappresentare un elemento di rassicurazione per i creditori, evitando che questi, nel timore di un possibile dissesto, si attivino con azioni esecutive o comunque aggredendo il patrimonio del loro debitore, peggiorando quindi la situazione in essere, consentendo loro nel contempo di beneficiare dei flussi reddituali generati dai beni segregati sino a quando essi non verranno liquidati.
Anche dal punto di vista dell’imprenditore il vantaggio è evidente, ed è rappresentato dalla possibilità di continuare ad utilizzare nell’attività imprenditoriale i beni disposti in trust pur fungendo questi, di fatto, da garanzia del corretto adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti dei creditori.
Va poi evidenziato come, essendo l’impresa ancora in bonis, non sussistono i presupposti della par condicio creditorum e vi è quindi la possibilità di utilizzare i frutti della liquidazione a beneficio di alcuni creditori piuttosto che di altri: muovendosi però al di fuori di qualsiasi procedura, in caso di successivo fallimento, le attribuzioni potranno essere oggetto di revocatoria.
Se l’impresa è invece in una crisi non solo di liquidità, ma comunque in una situazione in qualche modo ancora recuperabile, il trust liquidatorio può essere funzionale ad evitare lo stato di insolvenza e la proposizione dell’istanza di fallimento da parte dei creditori.
Disponendo in trust parte dei beni aziendali e magari parte dei propri beni personali, l’imprenditore persegue l’obiettivo di convincere i creditori circa il fatto che, così facendo, i crediti possono venire riscossi in modo più soddisfacente rispetto a quanto garantirebbe loro una procedura fallimentare.
Il trust potrebbe essere utilizzato anche in situazioni nelle quali non vi è la finalità di proseguire l’attività imprenditoriale, potendo rappresentare una possibile alternativa alla liquidazione volontaria della società.
In relazione a quest’ultima fattispecie, in realtà, giurisprudenza e dottrina prevalente ritengono che non possa essere considerato legittimo un utilizzo di questo tipo, probabilmente nel timore che l’accelerazione dell’estinzione della società che si realizza non persegua una finalità meritevole di tutela, ma sia soltanto finalizzata ad evitare una possibile dichiarazione di fallimento, dovendo questa intervenire entro un anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.
Ma, allora, il trust liquidatorio può o non può svolgere un’utile funzione nella composizione delle crisi d’impresa? Le molte pronunce con le quali i tribunali stanno “demolendo” trust liquidatori ci devono far desistere dal ricorrere all’istituto in questi casi?
In realtà, nella maggior parte dei casi arrivati all’esame dei giudici, è palese come non fosse perseguita alcuna finalità liquidatoria – tant’è che quasi sempre i creditori non erano neppure a conoscenza dell’esistenza del trust istituito a loro “vantaggio” -, ma l’unico reale obiettivo era quello di segregare il patrimonio in frode ai creditori.
Anche nell’ambito della gestione della crisi d’impresa, il trust, se utilizzato in modo trasparente, potrebbe dispiegare effettivamente una grossa utilità, garantendo in modo concreto i creditori circa la reale volontà dell’imprenditore in difficoltà di far fronte alle proprie obbligazioni.
Un legislatore attento dovrebbe favorire un utilizzo di questo tipo dell’istituto, che potrebbe supportare in modo efficiente i tentativi fatti negli ultimi anni di cercare di favorire una soluzione negoziale della crisi d’impresa.
Decisivo, come sempre, è anche ciò che avviene sul versante tributario, ponendosi in particolare il problema di quale debba essere la fiscalità dell’atto di dotazione con il quale i beni vengono disposti dall’imprenditore in trust.
Secondo la visione dell’Agenzia, anche in questo caso andrebbe applicata l’imposta di donazione, necessariamente con aliquota dell’8% (abbiamo visto in precedenti contributi come le ordinanze della Cassazione portino allo stesso risultato “pratico”, ma sulla base di un diverso presupposto, ossia quello della semplice apposizione del vincolo di destinazione).
A rigor di logica (e di diritto), non vi dovrebbe essere invece tassazione, poiché non si realizza, in questo caso, arricchimento di alcuno, né, in alcun modo, un atto di liberalità.