Il valore limite di rivalutazione: la divergenza tra prospettiva civilistica e fiscale
di Massimo BuongiornoLa rivalutazione dei beni di impresa prevista dall’articolo 110 D.L. 104/2020 ripropone, anche per il bilancio 2020, il discusso tema del valore limite nella duplice accezione civilistica e fiscale.
Il riferimento normativo è contenuto nell’articolo 11, comma 2, L. 342/2000: “I valori iscritti in bilancio e in inventario a seguito della rivalutazione non possono in nessun caso superare i valori effettivamente attribuibili ai beni con riguardo alla loro consistenza, alla loro capacità produttiva, all’effettiva possibilità di economica utilizzazione nell’impresa, nonché ai valori correnti e alle quotazioni rilevate in mercati regolamentati italiani o esteri”.
Sotto il profilo civilistico, il documento interpretativo Oic n. 7 del 31.03.2021 commenta, al paragrafo 14, che per individuare il limite massimo della rivalutazione si può utilizzare sia il criterio del valore d’uso sia del valore di mercato.
Il riferimento terminologico rimanda al principio contabile Oic 9, secondo il quale il valore d’uso dipende dalla capacità di produrre reddito e generare liquidità di uno specifico bene per la specifica società che effettua la valutazione mentre il valore di mercato esprime il prezzo più probabile che il bene può avere in una normale negoziazione di mercato.
Ad esempio, il valore di uso di un immobile è pari al valore attuale dei canoni attesi di locazione stipulati dalla società che lo possiede mentre il valore di mercato stima, sulla base di recenti contrattazioni, quale può essere il prezzo di vendita dell’immobile date le condizioni, la collocazione geografica e la dinamica corrente di mercato.
Lo stesso documento interpretativo Oic n. 7, al paragrafo 17, prevede che, prima della rivalutazione, debbano essere effettuati gli ammortamenti che sono quindi calcolati sui valori non rivalutati.
La rivalutazione ha per oggetto l’incremento del valore netto contabile di bilancio fino ad un massimo costituito dal valore economico del bene.
L’articolo 5 D.M. 162/2001 prevede che la rivalutazione possa essere effettuata utilizzando tre metodi alternativi:
- rivalutazione del costo storico e del fondo ammortamento, mantenendo inalterata la durata originaria del processo di ammortamento oltre che l’incidenza percentuale delle aliquote di ammortamento rispetto al costo storico rivalutato;
- rivalutazione del solo costo storico;
- riduzione del fondo ammortamento.
L’applicazione alternativa dei tre metodi deve avere gli stessi effetti sul risultato dell’esercizio e sul patrimonio netto.
Una consolidata posizione dell’Agenzia delle Entrate, confermata nella circolare 14/E/2017, ultimo documento di prassi sul punto, sostiene che la rivalutazione effettuata secondo il primo e il secondo metodo “non potrà mai portare il costo [storico] rivalutato del bene ad un valore superiore a quello di sostituzione. Per valore di sostituzione si intende il costo di acquisto di un bene nuovo della medesima tipologia, oppure il valore attuale del bene incrementato dei costi di ripristino della sua originaria funzionalità”.
Questa posizione dell’Agenzia delle Entrate introduce di fatto un doppio limite di valore: il primo, previsto dall’articolo 11 L. 342/2000, per il quale il valore netto contabile rivalutato del bene non può eccedere il suo valore economico, ed il secondo che il costo storico rivalutato non superi il costo di sostituzione a nuovo dello stesso bene.
Per quanto la nozione di costo di sostituzione sia nota in dottrina ed anche nei principi italiani di valutazione (PIV III.6.3), l’utilizzo che ne viene fatto lascia non poche perplessità, posto che da un lato i metodi sono solamente mezzi tecnici per rivalutare il netto contabile e dall’altro il vincolo del valore economico del bene pare sufficiente ad evitare che i valori rivalutati risultino “gonfiati”.
Tale posizione di prassi può essere molto penalizzante: si pensi al caso di un impianto caratterizzato da tecnologia matura con un florido mercato dell’usato e costo del nuovo relativamente stabile. È possibile che a fronte di un costo storico coincidente con il costo di sostituzione a nuovo, il valore di mercato del bene usato sia significativamente maggiore del netto contabile e quindi rivalutabile. In questo caso, però, l’unico metodo adottabile è il terzo, la riduzione del fondo ammortamento, ed ove il fondo ammortamento fosse incapiente rispetto al differenziale rivalutabile sul netto contabile, si avrebbe, poi, la curiosa conseguenza di non poter effettuare la rivalutazione per l’importo voluto.
L’impossibilità di utilizzare il primo metodo di rivalutazione ha importanti implicazioni fiscali. Esso infatti mantiene costante l’aliquota di ammortamento e, ove questa coincidesse con quella massima deducibile, gli ammortamenti civilistici sui valori rivalutati sarebbero interamente deducibili.
Al contrario, utilizzando il terzo metodo che mantiene costante il costo storico, gli ammortamenti sui maggiori valori eccederebbero il limite di deducibilità nei singoli esercizi e dovrebbero essere recuperati fiscalmente al termine del periodo di ammortamento civilistico del bene.
È auspicabile che nei prossimi interventi di prassi, l’Agenzia delle Entrate riveda la sua posizione che discrimina alcune situazioni rispetto ad altre e, di fatto, intende limitare l’accesso a metodi di rivalutazione pienamente legittimi.