29 Settembre 2021

Illegittimo l’accertamento sulle rimanenze se la distruzione della merce è provata dal formulario dei rifiuti

di Angelo Ginex
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In tema di accertamento, con riferimento alla presunzione di cessione di cui agli articoli 1 e 2 D.P.R. 441/1997, i contribuenti che necessitano di avviare a distruzione i propri beni, possono procedere all’operazione mediante consegna dei beni stessi a soggetti autorizzati all’esercizio di tali operazioni in conto di terzi, ai sensi delle vigenti leggi sullo smaltimento dei rifiuti; in tal caso, l’avvio a distruzione è dimostrato mediante il formulario di identificazione rifiuti di cui all’articolo 15 D.Lgs. 22/1997, contenente le indicazioni specifiche richieste dalle prescrizioni che, integrate dal D.M. 145/1998, sono tassative.

È questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 26223, depositata ieri 28 settembre.

La fattispecie disaminata dai giudici di vertice trae origine dagli avvisi di accertamento emessi nei confronti di una società in nome collettivo, con i quali l’Agenzia delle entrate recuperava a tassazione, ai fini Ires, Irap ed IVA, i maggiori ricavi derivanti dall’applicazione della presunzione di cessione delle rimanenze che non erano state rinvenute nei luoghi in cui la s.n.c. svolgeva le proprie operazioni.

Gli avvisi venivano impugnati dalla società contribuente, la quale riteneva di aver correttamente avviato la procedura di smaltimento della merce, ma i giudici di merito ritenevano che non fosse stato correttamente dimostrato l’avvio a distruzione dei pezzi di ricambio. Inoltre, i giudici affermavano che non c’era alcun indizio che potesse indurre a pensare che i suddetti pezzi fossero stati venduti sottocosto e che la percentuale di ricarico calcolata dall’ufficio era stata correttamente applicata alla vendita dei pezzi di ricambio in questione.

Veniva quindi proposto ricorso in Cassazione, per lamentare, tra gli altri motivi, la violazione degli articoli 1 e 2 D.P.R. 441/1997 e l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, consistente nell’esistenza dei formulari di identificazione rifiuti di cui all’articolo 15, D.Lgs. 22/1997 e la loro annotazione nel registro di carico e scarico rifiuti. In particolare, la società ricorrente sosteneva di aver dimostrato di avere correttamente avviato a distruzione i beni di magazzino che erano risultanti mancanti in sede di verifica e che la Commissione tributaria regionale avesse omesso di considerare la prova consistente nei formulari di identificazione rifiuti e dei relativi registri.

Ebbene, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondate le suddette doglianze, rammentando innanzitutto che la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che nel caso di “differenze inventariali”, ovvero differenze registrabili tra le quantità di merci giacenti in magazzino e quelle desumibili dalle scritture di carico e scarico, operano le presunzioni di cessione e di acquisto dei beni in evasione di imposta (di cui all’articolo 44 D.P.R. 441/1997) che consentono comunque, entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova stabiliti ai fini antielusivi, la dimostrazione contraria da parte del contribuente. Quest’ultimo sarà tenuto a provare, con le modalità tassativamente indicate dagli articoli 1 e 2 D.P.R. 441/1997, che la contrazione registratasi nella consistenza del magazzino è frutto dell’impegno produttivo dei beni e non di cessioni o acquisizioni non contabilizzate (cfr., Cass. civ. sent. 30.10.2018, n. 27549).

In particolare, la Corte ha precisato che nell’ipotesi in cui si scelga la distruzione volontaria dei beni, la dismissione postula passaggi quali la preventiva comunicazione all’ufficio dell’Agenzia delle entrate e la puntuale verbalizzazione delle operazioni distruttive; in tal caso, la mancata dimostrazione in ordine all’espletamento di tale procedura autorizza l’amministrazione finanziaria a riprendere a tassazione il maggior valore delle rimanenze attraverso il procedimento “analitico-induttivo”. Qualora, invece, l’impresa decida di affidare i beni da avviare a distruzione a soggetti autorizzati ai sensi delle leggi sullo smaltimento rifiuti, la prova di distruzione dei beni è data dall’annotazione sul formulario di identificazione di cui all’articolo 15 D.Lgs. 22/1997 (cfr., Cass. sent. 19.12.2019, n. 34038/2019 e Circ. 23.07.1998, n. 193).

Tale formulario dovrà contenere indicazioni specifiche relative al nome e all’indirizzo del produttore detentore; origini, tipologia e quantità del rifiuto; impianto di destinazione; data e percorso dell’istradamento; nome e indirizzo del destinatario.

Nella specie, così come evidenziato dalla Cassazione, i giudici di secondo grado hanno genericamente ritenuto non assolto l’onere probatorio a carico della contribuente, senza chiarire tuttavia i motivi per cui gli elementi prodotti sono stati reputati insufficienti ad integrare idonea dimostrazione dei fatti dedotti. Infatti, si afferma che: «nel caso di specie, la sentenza impugnata afferma soltanto che “l’avvio a distruzione non risulta in alcun modo documentato dalla contribuente”, omettendo di chiarire perché la prova addotta dalla società contribuente non era idonea a dimostrare la distruzione delle rimanenze di magazzino».

Pertanto, la Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Toscana in diversa composizione, affinché valuti se la società contribuente ha prodotto idonea prova contraria alla presunzione di cessione, alla luce del principio di diritto sopra enunciato.