Implicazioni contabili nella procedura di assegnazione agevolata
di Luca CaramaschiL’assegnazione di beni ai soci è una operazione che non trova una definizione “ufficiale” nel codice civile, ma vi sono alcune fonti autorevoli che hanno delineato i contorni civilistici di tale operazione che oggi presenta vantaggi fiscali significativi a seguito delle disposizioni contenute nei commi che vanno da 115 a 120 della legge di Stabilità 2016 (legge n.208/15).
Nel tentativo di dare una definizione all’operazione un primo utile riferimento deriva da un intervento (la CM 112/E/99) che l’Agenzia delle Entrate fece in relazione ad una precedente versione dell’agevolazione in commento. In essa si afferma infatti che “L’assegnazione viene a configurarsi ogni qual volta la società procede, nei confronti dei soci, alla restituzione di capitale o di riserve di capitale ovvero alla distribuzione di utili o di riserve di utili “.
Alla luce di tale definizione, peraltro largamente condivisa dalla dottrina notarile, si può dire che l’elemento essenziale che caratterizza l’assegnazione è una attribuzione ai soci che necessariamente comporta una riduzione del patrimonio netto. In proposito, quindi, potremo dire che se una società “assegna” un bene ai soci in contropartita dell’attribuzione ai medesimi di un passività di uguale importo, ciò che viene realizzato, in realtà, non è una assegnazione bensì una cessione nella quale il socio, invece che corrispondere denaro per acquisire il bene, si accolla un debito. In questo caso è proprio l’assenza di una riduzione del patrimonio netto che impedisce che si possa parlare, in senso tecnico, di assegnazione. Partendo da tale presupposto si pongono alcuni problemi diversi di ordine civilistico e contabile a seconda che la riduzione del patrimonio netto includa o meno il capitale sociale.
Sotto il profilo contabile occorre in primis rilevare che l’assegnazione di beni ai soci, traducendosi in una operazione per così dire “interna” tra società e soci, ed avendo come dato essenziale la riduzione del patrimonio netto, non dovrà incidere sul conto economico. Non vi sono infatti terze economie con cui la società conclude operazioni che possano generare utili o perdite. In questo senso va sfatato un equivoco spesso ricorrente, secondo cui l’emersione di plusvalenze o minusvalenze di carattere fiscale trovi poi una evidenza nel conto economico. La contropartita della eliminazione del bene non può che essere il patrimonio netto, senza quindi interessare il conto economico.
Esemplificando, quindi, se un immobile avesse
- valore contabile (costo fiscalmente riconosciuto) pari a 1.000,
- valore normale/catastale pari a 1.500
- e venisse assegnato tramite riduzione di riserve di utili per 1.000,
la scrittura contabile sarà la seguente:
DARE | AVERE |
Riserve utili 1.000 | Immobile 1.000 |
La circostanza relativa all’emersione di una plusvalenza pari a 500 (differenza tra valore normale/catastale e costo fiscalmente riconosciuto) rileva solo dal punto di vista fiscale generando una imposta sostitutiva di 40 (determinata applicando l’aliquota dell’8% prevista dall’agevolazione contenuta nella legge Stabilità 2016) che va ovviamente iscritta a conto economico quale costo, ma senza che si abbia alcun passaggio, sempre a conto economico, della plusvalenza di 500. Al riguardo va ricordato che uguale conclusione deve essere tratta se al posto di una plusvalenza fosse presente una minusvalenza, la quale non transiterebbe a conto economico. Con riferimento alla minusvalenza va ulteriormente precisato che la stessa, non configurandosi l’assegnazione come operazione realizzativa, non risulta nemmeno deducibile secondo quanto previsto dalle disposizioni fiscali.
Va segnalata a questo punto un’ulteriore rappresentazione contabile che, sebbene non molto praticata nella prassi operativa, è comunque una proposta sorretta da autorevole dottrina.
Il dato comune alle considerazioni sopra espresse è che il conto economico non viene interessato dall’operazione, tuttavia si propone una tesi che incide sull’entità del patrimonio netto. Considerando che i beni in natura non hanno un valore predeterminato oggettivamente, a differenza del denaro, potrebbe essere eseguita una assegnazione a valori che eccedono quello contabile, o meglio che eccedono la riduzione del patrimonio netto. Una scelta in tal senso viene ricondotta nei pieni poteri dell’organo assembleare che quindi avrebbe la possibilità di decidere che l’assegnazione avvenga ai valori contabili o a quelli di mercato, nel caso in cui sia maggiore oppure ad un valore intermedio tra i due.
Se i beni venissero assegnati al valore iscritto in bilancio, il patrimonio sociale diminuirà esattamente di un importo pari alla riduzione del capitale; qualora invece l’assegnazione avvenisse ad un valore superiore al valore iscritto, la riduzione dell’attivo sarà inferiore alla riduzione del capitale, determinando così una eccedenza da iscrivere in bilancio come riserva disponibile. Così si esprime autorevole dottrina (vedi Nobili – Polidoro “La riduzione del capitale sociale” in Trattato delle società per azioni, Torino, 1993).
Si consideri ad esempio una società avente
- capitale sociale di 800.000 euro,
- passività reali per 1.000.000 euro,
- beni iscritti all’attivo per 1.800.000 euro.
Qualora il capitale venisse ridotto da 800.000 a 600.000 euro ed ai soci venissero restituiti beni iscritti in bilancio per 200.000 euro la situazione patrimoniale della società resterebbe perfettamente bilanciata: il capitale di 600.000 e le passività reali di 1.000.000 saranno sempre coperti da un attivo il cui valore contabile sarà pari a 1.600.000 euro. Se al contrario i beni distribuiti ai soci avessero, per esempio, un valore di mercato doppio rispetto al loro valore di bilancio e fossero assegnati ai soci per il loro valore di mercato, nell’esempio che precede i soci sarebbero soddisfatti con la distribuzione (per complessivi 200.000 euro) di beni iscritti in bilancio per 100.000 euro. L’operazione produrrebbe come effetto che, di fronte ad un attivo di un 1.700.000 euro (a valore di libro), vi sarebbe un capitale di 600.000 euro ed un passivo reale di 1.000.000. La differenza (100.000 euro) darebbe luogo ad una plusvalenza, tassata, e dovrebbe essere accantonata a riserva.
Nell’esempio che precede possiamo notare come l’effetto del realizzo di beni plusvalenti è comunque rilevato tramite una iscrizione di riserva, senza che tuttavia sia inciso direttamente il conto economico.
A ben vedere si può ritenere che il bene sia stato assegnato al valore di libro (nell’esempio 100.000) e che il capitale sociale sia stato ridotto effettivamente dello stesso importo (100.000) poiché a fronte di una riduzione di 200.000, poi si iscrive una riserva pari a 100.000.
Il risultato sostanziale è che viene modificata la formazione del patrimonio netto, spostandosi una entità da capitale sociale a riserva.
Si potrebbe, inoltre, ragionare allo stesso modo anche al contrario, cioè assegnando beni il cui valore effettivo è inferiore a quello iscritto in bilancio. La fattispecie non necessariamente costituisce un illecito contabile rappresentato dall’aver mantenuto in bilancio un bene ad un valore non reale senza aver operato una svalutazione. Al riguardo si potrebbe sostenere che la perdita di valore non è durevole, ed in effetti la recente fluttuazione dei prezzi nel mercato edilizio potrebbe ben giustificare l’assenza di una svalutazione.
Ma quando il bene è assegnato ai soci la perdita di valore diventa irrevocabile e quindi in quel momento dovrebbe avvenire la svalutazione.
Si veda il seguente esempio:
- Immobile iscritto per 1.000 (valore reale dell’immobile 800),
- Altre attività 1.000,
- Passività per 300,
- Patrimonio netto per 1.700.
Prima di assegnare viene eseguita la svalutazione, quindi l’immobile passa a 800, passività 300, patrimonio netto 1.500. Se si volesse dare rappresentazione contabile a tale situazione si potrebbe rilevare direttamente a patrimonio netto la perdita con la seguente scrittura contabile
DARE | AVERE |
Svalutazione 200 | Immobile 200 |
Immobile 800 | Patrimonio netto 800 |
Come si vede il patrimonio netto viene comunque ridotto di 1.000, cioè il valore contabile dell’immobile ante svalutazione.