Impresa familiare: utili imputabili al convivente di fatto
di Raffaele PellinoÈ possibile imputare utili al convivente di fatto che lavora stabilmente nell’impresa familiare dell’altro convivente. Questo è quanto precisato nella risoluzione 134/E/2017 in cui l’Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti sul corretto trattamento fiscale della quota che il titolare di una ditta individuale intende imputare, a titolo di partecipazione agli utili e a decorrere dal 2017, alla convivente di fatto, in esecuzione dell’atto modificativo di impresa familiare nel quale si dichiara la cessazione della prestazione d’opera resa dalla madre e l’inserimento nell’impresa della convivente di fatto.
In particolare, l’Agenzia, nel fornire risposta all’istante, analizza i diversi aspetti che legano la legge sulle unioni civili all’impresa familiare.
Come noto, la L. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà) ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplinato il regime delle convivenze di fatto.
Detta legge è intervenuta, altresì, sulla disciplina dell’impresa familiare, in una duplice direzione:
- da un lato, estendendo alle unioni civili la disciplina civilistica dell’impresa familiare di cui all’articolo 230-bis del cod. civ.;
- dall’altro, introducendo nel codice civile l’articolo 230-ter, recante la regolamentazione delle prestazioni di lavoro rese in favore del convivente more uxorio.
Tale ultima norma riconosce “Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente…il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato”. La norma prevede, inoltre, che il diritto di partecipazione non spetti “qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato”.
Pertanto, la scelta del legislatore di introdurre una disciplina specifica per il convivente, diversa da quella dell’impresa familiare, che resta regolata dall’articolo 230-bis del cod. civ. – precisa l’Agenzia – “riflette l’intenzione di mantenere su posizioni differenti la collaborazione del convivente rispetto a quella del familiare (o della parte civile, alla quale la disciplina dell’impresa familiare è applicabile)”.
La diversa posizione del convivente di fatto rispetto a quella familiare la si evince anche da alcune diversità di rilievo dei regimi previsti dagli articoli 230-bis e 230-ter del cod. civ: tra queste, l’esclusione del convivente dal diritto al mantenimento nonché dal diritto alla partecipazione alle decisioni dell’impresa, diritti spettanti invece al familiare ed alla parte civile (articolo 230-bis, comma 1).
Tuttavia, pur intervenendo su diversi aspetti civilistici, la Legge Cirinnà non ha disciplinato il regime tributario dell’impresa familiare che resta “ancorato” all’articolo 5, comma 4 del Tuir.
Tale norma stabilisce che i redditi delle imprese familiari “limitatamente al 49 per cento dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”.
L’imputazione proporzionale con il limite del 49% presuppone, a sua volta, la partecipazione all’impresa di un soggetto avente lo status di familiare, ovvero “il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado” (articolo 5, comma 5 del Tuir).
Al riguardo, con la circolare 40/1976, il Ministero delle Finanze ha precisato che, sebbene detto articolo 5 del Tuir sia intitolato ai “redditi prodotti in forma associata“, la collocazione in esso dell’impresa familiare sta soltanto a ribadire il principio di trasparenza in virtù del quale “il reddito prodotto da un determinato soggetto fra quelli contemplati dallo stesso art. 5, è imputato a ciascuno degli aventi diritto indipendentemente dall’effettiva percezione del reddito e in proporzione alle rispettive quote di partecipazione agli utili”.
Pertanto, è prevista una duplice qualificazione dei redditi conseguiti nell’esercizio dell’impresa familiare, ovvero reddito d’impresa per il titolare (attesa la natura dell’impresa familiare come impresa individuale), redditi di partecipazione per i collaboratori familiari.
Ciò detto, nel documento di prassi, l’Agenzia delle Entrate osserva che l’articolo 5, comma 4, del Tuir richiama solo l’articolo 230-bis del cod. civ. e non anche l’articolo 230-ter del cod. civ., che reca la specifica disciplina dei diritti spettanti al convivente che partecipa all’impresa dell’altro convivente.
Tale eventualità – precisa l’Agenzia – “porterebbe ad escludere l’applicazione a tale ultima ipotesi della norma fiscale richiamata”. Tuttavia – continua l’Agenzia – il riferimento alla “partecipazione agli utili dell’impresa familiare” spettanti al convivente, contenuto nello stesso articolo 230-ter del cod. civ., consente di applicare anche a questa fattispecie “i principi generali che hanno portato alla collocazione dell’impresa familiare all’interno dell’articolo 5 del TUIR”.
Conseguentemente, l’Agenzia delle Entrate ritiene che il reddito spettante alla convivente di fatto, derivante dalla partecipazione agli utili dell’impresa dell’altro convivente, sia a questa imputabile in proporzione alla sua quota di partecipazione.