2 Dicembre 2020

Incompatibili le discipline della rivalsa Iva da accertamento e della nota di credito

di Luca Caramaschi
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La scheda di FISCOPRATICO

L’attuale versione dell’ultimo comma dell’articolo 60 del Decreto Iva, nel disciplinare il meccanismo della c.d. rivalsa Iva da accertamento, recita testualmente che “Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione“.

Una delle fattispecie nelle quali trova spesso applicazione detto meccanismo fa riferimento alla emissione di fatture in regime di non imponibilità sulla base di lettere di intento poi rilevatesi false.

Con la conseguenza che, in caso di accertamento, al fornitore del presunto esportatore abituale viene richiesto il pagamento dell’Iva non addebitata in origine al proprio cliente.

In tale situazione si pone il problema di come concretamente operare la rivalsa, posto che l’emissione di una fattura o nota di variazione in aumento nei confronti del cliente determinerebbe un’apparente duplicazione dell’imposta (una prima volta in occasione del versamento dell’iva a seguito di accertamento e una seconda volta con il concorso alla liquidazione dell’Iva sulla fattura emessa al fine di esercitare la rivalsa nei confronti del cliente).

A questa questione ha dato risposta la circolare 35/E/2013, con la quale l’Agenzia delle Entrate ha fornito le prime indicazioni in relazione alla modifica che l’articolo 60 del Decreto Iva ha subito ad opera dell’articolo 93 D.L. 1/2012 (cosiddetto “Decreto liberalizzazioni”).

In particolare, è nella risposta contenuta nel paragrafo 4.1 della richiamata circolare 35/E/2013 che, nel descrivere gli adempimenti prodromici all’esercizio della rivalsa dell’imposta pagata in sede di accertamento, si afferma chiaramente che “Al fine di esercitare il diritto alla rivalsa dell’Iva pagata a titolo definitivo in sede di accertamento il cedente/prestatore dovrà emettere una fattura (o una nota di variazione in aumento di cui all’articolo 26, primo comma del D.P.R. n. 633 del 1972), con le indicazioni previste dall’articolo 21 ovvero, a partire dal 1° gennaio 2013, con i dati semplificati di cui al successivo articolo 21-bis, (richiamando altresì, laddove emessa/e, la/e fattura/e originaria/e), e con gli estremi identificativi dell’atto di accertamento che costituisce titolo alla rivalsa. Il documento andrà annotato nel registro di cui all’articolo 23 del D.P.R. n. 633 del 1972 solo per memoria, perché l’imposta recuperata a titolo di rivalsa non dovrà partecipare alla liquidazione periodica, né essere indicata in una posta a debito nella dichiarazione annuale.”

Scongiurato il pericolo di duplicazione dell’imposta (seppur con un comportamento decisamente irrituale quale l’annotazione “per memoria”), andiamo ad analizzare il successivo tema (purtroppo molto frequente) dell’infruttuoso esercizio della rivalsa nei confronti dei clienti.

Accade spesso, infatti, che a distanza di molti anni dall’operazione originaria contestata in sede di accertamento, il cliente abbia cessato l’attività, si sia reso irreperibile, oppure sia nel frattempo incappato in procedure di tipo concorsuale: fatti che evidentemente rendono impossibile la soddisfazione del creditore. Su tale fattispecie si è recentemente pronunciata l’Agenzia delle Entrate con la risposta all’istanza di interpello n. 219 del 20.07.2020 nella quale, in un caso analogo a quello richiamato in precedenza, l’istante che ha intrapreso nei confronti del cliente azioni esecutive individuali ottenendo tuttavia la certificazione dell’Ufficiale giudiziario dell’avvenuto pignoramento con esito negativo, chiede se  sia possibile emettere nota di credito ai sensi dell’articolo 26, comma 2, del Decreto Iva per procedura esecutiva rivelatasi infruttuosa al fine di recuperare comunque l’imposta.

Non ritenendo tale soluzione condivisibile, l’Agenzia richiama altri documenti di prassi (oltre alla richiamata circolare 35/E/2013, le risposte agli interpelli 84/2018, 531/2019, 176/2019) al fine di precisare che la rivalsa a seguito di accertamento prevista dall’articolo 60 del Decreto Iva si differenzia da quella ordinariamente prevista in quanto ha carattere facoltativo, si colloca temporalmente in epoca successiva all’effettuazione dell’operazione e presuppone l’avvenuto versamento definitivo della maggiore Iva accertata da parte del cedente/prestatore.

L’Agenzia ne ricava quindi che, anche in presenza di tutte le condizioni necessarie a rendere il diritto potenzialmente esistente, “la rivalsa operata ai sensi dell’articolo 60 ha natura di istituto privatistico, inerendo non al rapporto tributario ma ai rapporti interni fra i contribuenti” (risposta all’istanza di interpello n. 84/2018) e, quindi, in caso di mancato pagamento dell’Iva da parte del cessionario o committente, l’unica possibilità consentita al fornitore per il recupero dell’Iva pagata all’Erario, addebitata in rivalsa e non incassata, è quella di adire l’ordinaria giurisdizione civilistica, non potendosi invocare altri istituti contemplati dalla disciplina Iva (nel caso specifico la nota di variazione in diminuzione ai sensi dell’articolo 26, commi 2 e 3 del Decreto Iva).

Come già espressamente chiarito nella risposta al già citato interpello n. 531/2019, pertanto, non risulta condivisa dall’Agenzia la soluzione di prevedere l’emissione di una nota di variazione in diminuzione dell’Iva, allorché, successivamente all’inutile esercizio della rivalsa ai sensi dell’articolo 60, ultimo comma, del Decreto Iva, il cessionario committente sia cancellato dal registro delle imprese senza che il credito dell’istante sia stato soddisfatto, ovvero all’esito infruttuoso di procedure esecutive esperibili, in presenza delle condizioni specifiche fissate normativamente, anche nei confronti di altri soggetti.