Incrementi patrimoniali con giustificazioni ampie nel redditometro
di Nicola Fasano
Per la prova contraria rispetto agli incrementi patrimoniali contestati dal Fisco nell’ambito del redditometro basta documentare la disponibilità di redditi sufficienti a far fronte a tali incrementi, non è invece necessario dimostrare che proprio quei redditi siano stati impiegati per affrontare le “spese per incrementi patrimoniali” recuperata a tassazione dall’Ufficio.
E’ questa l’importante precisazione contenuta nella sentenza n. 6396 del 19/3/2014 della Corte di Cassazione che conferma un orientamento già emerso in vari giudizi di merito.
La sentenza è ancor più importante in quanto si discosta espressamente dal precedente filone, cristallizzato in particolare nella sentenza n. 6813 del 20/3/2009, spesso citata dagli Uffici negli accertamenti, secondo cui ai fini della prova contraria rispetto agli incrementi patrimoniali, «… non è sufficiente la prova della sola disponibilità di “redditi” – e men che mai di “redditi esenti” ovvero di “redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta” – ma è necessario anche la prova che la “spesa per incrementi patrimoniali” sia stata sostenuta, non già con qualsiasi altro reddito (ovviamente dichiarato), ma proprio con redditi “redditi esenti o … soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta“». Secondo questa interpretazione «… senza (la prova anche de) il nesso eziologico tra possesso di redditi e spesa “per incrementi patrimoniali”, questa spesa (siccome univocamente indicativa, per presunzione di legge, della percezione di un reddito corrispondente) continuerebbe a produrre i suoi effetti presuntivi a danno del contribuente, non avendo lo stesso superato la forza della presunzione iuris tantum (“la stessa si presume”) posta, a suo svantaggio dalla norma…».
Ebbene, è evidente come tale indirizzo, più volte criticato anche in dottrina, si spinge ben oltre il tenore letterale della norma. Correttamente la Suprema Corte, con la sentenza n. 6396/2014, osserva che il sesto comma dell’art. 38 DPR n. 600 del 1973, nella versione ratione temporis vigente, dispone testualmente che “… Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. La disposizione in esame, pertanto, non impone affatto la dimostrazione dettagliata dell’impiego delle somme per la produzione degli acquisti o per le spese di incremento, semmai richiedendo al contribuente di vincere la presunzione che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti e gli incrementi. Il che, precisa la Corte, significa che nessun’altra prova deve dare la parte contribuente circa l’effettiva destinazione del reddito esente o sottoposto a tassazione separata agli incrementi patrimoniali se non la dimostrazione dell’esistenza di tali redditi.
Viene quindi inequivocabilmente “spezzato” il nesso eziologico, tanto caro agli Uffici, che in molti casi porta a una “prova diabolica” impossibile da fornire. Questo, ovviamente, non significa che in sede di difesa sia sufficiente un astratto e generico riferimento alla capacità reddituale del contribuente in relazione al periodo di imposta oggetto di accertamento, non potendo rilevare, per esempio, ai fini della prova contraria, eventuali donazioni che siano ricevute, sempre nel medesimo periodo di imposta, ma dopo il pagamento del prezzo del bene che ha generato l’incremento patrimoniale.
Proprio sulla questione delle donazioni fra familiari, inoltre, la sentenza in commento offre un ulteriore assist al contribuente. La Suprema Corte, infatti, “bacchetta” la Commissione Tributaria Regionale per non aver considerato la donazione pari a 700.000 euro fatta tramite bonifico dalla madre del contribuente accertato, risultante anche da una scrittura privata, seppur non autenticata e senza data certa.
L’indirizzo emerso nella sentenza in esame, è riferito al “vecchio” redditometro e pare ineccepibile. Il principio, peraltro, può essere esteso nella sostanza anche al “nuovo” redditometro (applicabile per gli anni di imposta dal 2009 in avanti), laddove da un lato la Tabella A del D.M. 24/12/2012 prevede che gli incrementi patrimoniali siano considerati scomputando i disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti (o anche di anni più risalenti, come precisato dalla circolare 24/E/2013, par. 3.6.7), dall’altro, l’”attuale” art. 38, comma 4, D.P.R. 600/1973 riconosce espressamente la possibilità di giustificare le spese (a maggior ragione, si ritiene, quelle consistenti in incrementi patrimoniali) contestate dal fisco con qualsiasi reddito legalmente escluso dalla formazione della base imponibile. Tuttavia, considerato che il legislatore (e l’Agenzia delle entrate nel D.M. 24/12/2012), dal punto di vista del tenore letterale della norma, pare aver spostato l’attenzione dalla giustificazione del generico scostamento fra reddito sintetico accertato e reddito dichiarato, alla prova relativa al più specifico finanziamento delle spese contestate, è bene che si utilizzino sempre strumenti di pagamento/trasferimento tracciabili, e in sede di difesa, per quanto possibile, si eccepisca una ricostruzione dettagliata della provvista con la quale l’incremento patrimoniale è avvenuto.