Indagini finanziarie, occhio alla prova contraria
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
Il potere “invasivo” delle indagini finanziarie è noto e due sentenze recentissime della Corte di Cassazione lo confermano. In primo luogo, la sentenza n. 10043 depositata lo scorso 8 maggio, sesta sezione civile, secondo cui anche nei confronti dei professionisti è sufficiente al fisco provare i collegamenti di conti correnti di terzi soggetti per ottenere l’inversione dell’onere probatorio. La linea difensiva, ci ricordano i giudici di Piazza Cavour, può transitare anche attraverso presunzioni semplici, che devono essere attentamente vagliate dall’organo giudicante “(…) il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante), ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative”.
Tali concetti sono stati ribaditi anche nella sentenza n. 100386 depositata il 13 maggio 2014, che ha accolto le doglianze dell’amministrazione finanziaria in ordine alla mancata valutazione delle presunzioni collegate ai movimenti bancari, con specifico riguardo a quelli ritenuti giustificati in quanto collegati ad eventi familiari, pur se già i verificatori avevano evitato contestazioni in relazione agli importi inferiori ai mille euro. In sostanza, a parere dell’Agenzia delle Entrate non è possibile ammettere la generica affermazione che trattasi di movimenti personali, laddove in sede di verifica, con tale ipotetica destinazione, erano stati scartati dai recuperi effettuati proprio gli importi di entità minore (ossia, come detto, fino a 1.000,00 euro). Anche in tale evenienza, concernente in particolare i conti correnti degli amministratori di una società di persone, i giudici evidenziano che “(…) per l’amministrazione finanziaria non vi è l’onere di previa dimostrazione dell’esistenza di sottrazione di materia imponibile in capo alla società, ai fini della valorizzazione delle movimentazioni bancarie identificate sui conti correnti nominalmente intestati ai soci, atteso che gli indizi di cointeressenza e perciò di riferibilità all’attività d’impresa svolta dalla società possono essere fondati anche sulla circostanza stessa dell’omessa precisa identificazione della origine e provenienza o della destinazione di somme che risultano transitate sui predetti conti correnti, alla luce del fatto che, specie nelle società di persone, il rapporto intercorrente tra amministratori e società amministrata è talmente stretto da realizzare una sostanziale identità di interessi, tale da giustificare automaticamente e salvo prova contraria l’utilizzazione dei dati raccolti”.
Le due sentenze appena richiamate confermano la delicatezza delle indagini finanziarie, rispetto alle quali è opportuno prendere opportune contromisure, a prescindere da considerazioni di carattere teorico.
Sarà pur vero, infatti, che non sussiste un obbligo di tracciabilità completa o di tenuta di una “contabilità bancaria” in capo alle persone fisiche non titolari di partita IVA, nonché in capo ai contribuenti con regimi semplificati o che hanno la contabilità semplificata. L’esperienza delle indagini finanziarie, però, ci porta a conclusioni diametralmente opposte: è importante la tracciabilità e la giustificazione della movimentazione effettuata.
Così come è altrettanto vero che il conto corrente “collegato” al soggetto sottoposto a controllo deve essere ricondotto a quest’ultimo da parte dell’amministrazione finanziaria, ma abbiamo altresì imparato che ciò avviene sulla base di semplici presunzioni: a quel punto, la “palla” difensiva passa al contribuente, che deve dimostrare l’estraneità delle movimentazioni agli accadimenti professionali o imprenditoriali.
Si pensi al conto corrente dei familiari o, come nel caso appena richiamato, a quello dei soci: la presunzione del fisco ha vita facile; spetta al contribuente adeguatamente difendersi. L’implicazione di tale stato di cose è che nulla può essere lasciato alla “mera” teoria, ma è importante adottare dei comportamenti utili in ottica di difesa preventiva (nella speranza, comunque, che prima o poi qualcuno si degni di modificare la norma, soprattutto in riferimento all’impatto della presunzione sui prelevamenti).
Allo stato dell’arte, i suggerimenti pratici principali adottabili sono i seguenti:
- Non limitarsi alla sola distinzione tra conto “dedicato” e conto personale. Tutti i movimenti devono essere monitorati. Secondo l’Amministrazione Finanziaria è utilizzabile un parametro di “normalità” dei movimenti bancari (si pensi ai prelievi di contante). E’ bene dunque evitare prelievi anormali o non giustificati. Ad esempio, se si ha una baby sitter ed a fine mese, con costanza, si preleva un importo di 800,00 euro, di cui 600 destinate allo stipendio della collaboratrice, non ci ravvedono problemi anche se solitamente avvengono prelievi di circa 250/500 euro alla settimana;
- Documentare tutti i movimenti finanziari, anche tra familiari. Di certo non si deve esasperare la vicenda fino a chiedere assegni o bonifici anche per i regali, ma in caso di prestiti o interventi sostanziosi la tracciabilità è il miglior viatico;
- Prendere la buona abitudine di fare le fotocopie degli assegni emessi, conservare le matrici e i documenti (fatture, ricevute, etc) dei pagamenti effettuati. Alla fine sempre si risale al pagamento, ma senza documenti bisogna affrontare “le forche caudine” degli istituti di credito, che chiedono non pochi euro per il rilascio di specifica documentazione.
Si ripete, tutto ciò non appare molto normale e forse la norma andrebbe cambiata e perfezionata, ma al momento non vi sono soluzioni diverse. Nella speranza che la Corte di Cassazione abbia il buon senso, nelle prime casistiche che saranno esaminate, di confermare che sul fronte dei prelievi è sufficiente l’indicazione del beneficiario (come prevede testualmente la norma). A scanso di equivoci, laddove possibile, una dichiarazione sostitutiva di supporto è sicuramente di aiuto. Per ora la giurisprudenza di merito prevalente ritiene in tal modo compiuta l’onere probatorio, ma stando in Italia e soprattutto in riferimento al bizzarro fisco nostrano, tutto appare possibile.