Indagini finanziarie sui conti dei soci
di Davide DavidPuò accadere che, facendo seguito a indagini finanziarie effettuate sui conti correnti di un socio di una società di capitali per motivi diversi da quelli fiscali (ad esempio, per la ricostruzione patrimoniale in una causa di divorzio), l’Ufficio, previa la dovuta autorizzazione, emetta degli avvisi di accertamento in capo al socio per le entrate che ritenga non adeguatamente giustificate, presumendo che trattasi del percepimento di somme corrisposte dalla società e non dichiarate dal socio.
Vi è poi il caso dell’accertamento nei confronti del socio che, in qualità di amministratore della società, sia risultato colpevole del reato di bancarotta patrimoniale (o per distrazione).
In entrambi i casi si pone, tra l’altro, il problema di capire a quale categoria reddituale fare riferimento per la determinazione delle maggiori imposte accertabili in capo al socio.
A tale proposito va esaminato quanto disposto dalle norme sulle indagini finanziarie e sui proventi da illecito.
Per quanto concerne le indagini finanziarie, l’art. 32 del d.P.R. n. 600/72 consente all’Ufficio di accertare un maggior reddito nella misura delle entrate rilevate sui conti correnti per le quali il contribuente non sia stato in grado di dimostrare adeguatamente che ne ha tenuto conto per la determinazione del proprio reddito tassabile oppure che non hanno rilevanza fiscale.
Per quanto riguarda, invece, i proventi da illecito, l’art. 14, co. 4, della L. n. 537/93, statuisce che sono da considerare redditi soggetti a tassazione “i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale” e che, ai fini impositivi, detti redditi “sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria (tra quelle di cui all’art. 6 del TUIR, ndr)”. Giusto quanto disposto dall’’art. 36, co. 34-bis, del D.L. n. 223/06, la predetta norma “si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del TUIR, … sono comunque considerati come redditi diversi”.
Alla luce di tali disposizioni si prenda ora il caso del presunto percepimento di utili da parte del socio in situazioni “normali” (non quindi nell’ambito di situazioni di bancarotta).
In tale ipotesi una prima domanda da porsi è se l’Ufficio, senza prima avere operato un accertamento sulla società, possa accertare in via presuntiva in capo al socio il percepimento di utili in misura superiore a quelli la cui distribuzione è stata deliberata dalla società.
A tale domanda pare doversi rispondere in senso negativo. Occorre infatti considerare che, come anche confermato da una parte della giurisprudenza, l’accertamento di un maggior reddito in capo ad una società di capitali non è di per sé sufficiente a validare la presunzione di un maggior reddito in capo ai soci, in quanto occorre anche dimostrare la ristrettezza della compagine societaria e fornire presunzioni qualificate sulla sostenuta distribuzione dei maggiori utili. A maggior ragione non dovrebbe quindi essere consentito un accertamento in capo al socio per il presunto percepimento di utili senza aver prima dimostrato la sussistenza di tali utili in capo alla società, oltre che la ristrettezza della relativa compagine societaria e la avvenuta distribuzione di utili superiore a quella deliberata.
Se invece si dovesse considerare ammissibile (e sufficiente) la suddetta presunzione, occorrerà chiedersi in quale categoria reddituale far rientrare gli importi accertati in capo al socio.
A tale proposito è da ritenere che, fatto salvo il caso che i presunti maggiori utili siano imputabili a attività illecite (da parte della società e/o del socio), non potrà applicarsi al caso di specie quanto statuito dal combinato disposto delle sopra richiamate disposizioni della L. n. 537/93 e del D.L. n. 223/06 (in quanto specificatamente riferite ai soli “proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo”).
Pertanto, se l’Ufficio dovesse motivare l’accertamento richiamando tali disposizioni, potrà essere eccepita la sua illegittimità per difetto di motivazione.
Peraltro, anche se le suddette norme fossero applicabili, occorre comunque considerare che le stesse prevedono espressamente che i proventi accertati sono da considerare redditi diversi solo laddove “non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del TUIR”. Ciò comporta che se i proventi delle attività illecite sono classificabili in una delle categorie reddituali di cui all’art. 6 del TUIR, la determinazione della base imponibile va operata utilizzando le regole proprie di tale categoria. Ad esempio, i proventi derivanti da attività di usura sono classificabili tra i redditi di capitale (c.m. n. 150/94) e quindi la base imponibile va determinata con le regole proprie dei redditi di capitale.
Poiché nel caso in esame è lo stesso Ufficio a presumere che trattasi del percepimento di utili corrisposti da società di capitali, le entrate del socio risultano pertanto classificabili tra i “redditi di capitale” (di cui alla lettera b del comma 1 dell’art. 6 del TUIR) ovvero, laddove le partecipazioni siano detenute nell’ambito di una attività di impresa, tra di “redditi d’impresa” (di cui alla lettera e del comma 1 dell’art. 6 del TUIR).
Pertanto, il maggior reddito da riprendere a tassazione andrà determinato applicando le percentuali (di tassazione/abbattimento) previste dall’art. 47 del TUIR (in caso di partecipazioni detenute a titolo privato) ovvero degli artt. 59 o 89 del TUIR (in caso di partecipazioni detenute nell’ambito di una attività d’impresa).
A maggior ragione, laddove sia condivisa la inapplicabilità al caso di specie dell’art. 14, co. 4, della L. n. 537/93, comunque le entrate rilevate sul conto corrente del socio, laddove ricondotte dall’Ufficio a un presunto percepimento di utili, andranno riprese a tassazione secondo le regole proprie della tassazione dei dividendi (di cui ai richiamati articoli 47, 59 e 89 del TUIR).
Da ultimo ci si vuole soffermare brevemente sul reato di bancarotta patrimoniale (o per distrazione) di cui si sia reso colpevole il socio che sia anche amministratore della società partecipata.
La questione riguarda le somme o i beni che il socio/amministratore abbia delittuosamente sottratto alla funzione di garanzia patrimoniale a favore dei creditori, destinandoli a se stesso.
In tale ipotesi dovrebbe trovare applicazione il più volte richiamato art. 14, co. 4, della L. n. 537/93, ritenendo che le somme e/o i beni sottratti siano configurabili quali “proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo”, nello specifico, proventi derivanti dal reato di bancarotta fraudolenta.
A questo punto occorre considerare che, come già sopra evidenziato, la suddetta norma, in combinazione con l’art. 36, co. 34-bis, del D.L. n. 223/06, presuppone che ai fini della tassazione debba essere per prima cosa verificato se i proventi sono classificabili in una delle categorie di cui all’art. 6 del TUIR, dato che solo se non così classificabili sono comunque da considerare come redditi diversi.
Da ciò sembra conseguire che laddove quanto sottratto alla società sia configurabile quale percezione di utili (anche in natura), il provento da illecito sia da classificare quale redditi di capitale (nel caso di partecipazioni detenute a titolo privato) ovvero quale reddito di impresa (nella più rara ipotesi di partecipazioni detenute nell’ambito di una attività di impresa); con la conseguenza che il maggior imponibile dovrà essere determinato secondo le regole proprie, rispettivamente, dei redditi di capitale o di impresa.