Inerenza e anti-economicità: il recente orientamento della Cassazione
di Andrea CaboniGianluca CristoforiNel corso degli ultimi anni l’Amministrazione finanziaria ha emesso numerosi avvisi di accertamento mediante i quali ha contestato alle imprese l’indeducibilità di taluni oneri per mancanza del requisito dell’inerenza, ai sensi dell’articolo 109, comma 5, Tuir, in quanto ritenuti “antieconomici” in un’ottica imprenditoriale.
Tale prassi accertativa ha determinato l’instaurazione di un cospicuo numero di contenziosi e lo sviluppo di un acceso dibattito giurisprudenziale.
In tale contesto, assume particolare rilevanza la recente sentenza n. 18904/2018 della Corte Cassazione che – nell’esercizio della sua funzione nomofilattica – ha dapprima effettuato una rigorosa disamina delle più recenti pronunce sulla rilevanza del giudizio di economicità dei costi nell’ambito della valutazione della loro inerenza rispetto all’attività economica esercitata e, successivamente, ha affermato alcuni importanti principi di diritto.
Nella succitata sentenza, infatti, la Suprema Corte ha innanzitutto rilevato che il principio di inerenza “si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo”; ha, altresì, evidenziato che incombe sul contribuente l’onere di provare l’inerenza di un costo.
Tale principio è in linea con l’orientamento giurisprudenziale da ultimo sviluppatosi (ribadito anche nella recente ordinanza n. 13882/2018 della Corte di Cassazione), con la quale è stato anche affermato che la nozione di inerenza di un costo non sarebbe disciplinata dall’articolo 109, comma 5, Tuir – che regolerebbe “il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili (escludendosi la deducibilità dei costi relativi a ricavi esenti)” – ricavandosi bensì dalla stessa nozione di reddito d’impresa.
Nella sentenza in esame, quindi, la Corte di Cassazione effettua un distinguo sugli effetti di un giudizio di economicità e congruità di un costo, al fine di valutare la relativa inerenza rispetto all’attività d’impresa e, precisamente:
- “in tema di imposte dirette, l’Amministrazione finanziaria, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza od inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa; in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali”;
- “in tema di Iva, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo ed l’attività d’impresa”.
Dalla decisione in commento emerge che il principio di inerenza, esprimendo una correlazione tra i costi e l’attività d’impresa in concreto esercitata, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo: in sostanza, il costo attiene o non attiene all’attività d’impresa, a prescindere dalla sua entità.
Nell’ambito di un accertamento ai fini delle imposte sui redditi, ritenere che un costo sia “antieconomico” o “incongruo” assume un valore sintomatico in ordine al fatto lo stesso sia non inerente.
La contestazione dell’Amministrazione finanziaria non può limitarsi all’individuazione di un mero scostamento dell’entità del costo da presunti “canoni di normalità del mercato” (condotta che, peraltro, non risulterebbe legittimata da nessuna disposizione normativa prevista nell’ordinamento tributario), ma deve consistere nella positiva affermazione che tale costo, sulla base di elementi oggettivi, sia estraneo all’attività d’impresa concretamente esercitata, così da determinare un giudizio di inerenza negativo; diversamente si realizzerebbe un’ingiustificata e intollerabile ingerenza nelle scelte imprenditoriali.
In materia di Iva, l’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria, che intenda contestare la mancanza di inerenza delle operazioni compiute e fatturate dal contribuente, è aggravato, non assumendo di per sé rilievo la mera sproporzione o l’incongruenza tra costo e valore del bene o del servizio, se non quando tale anti-economicità risulti, alla luce di una complessiva valutazione, macroscopica e del tutto evidente (accertamento, questo, che compete al giudice di merito). Infatti, conformemente all’orientamento giurisprudenziale largamente prevalente della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte di Cassazione (ribadito anche nella recente sentenza n. 2240/2018) “la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato deve ritenersi irrilevante (Corte giust. 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandic Gasabach)”.