Inerenza, congruità e antieconomicità sono principi validi anche ai fini Iva?
di Marco BargagliCome noto, ai fini delle imposte sui redditi l’articolo 109 Tuir contiene le norme generali sui componenti del reddito d’impresa, facendo esplicito riferimento ai famosi principi di competenza, inerenza, certezza e obiettiva determinabilità dei costi sostenuti.
In particolare, per espressa disposizione normativa, i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza; tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni.
Con specifico riferimento al principio di inerenza del costo sostenuto, la normativa sostanziale prevede che le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.
Di contro, ai fini Iva, l’articolo 19, comma 1, D.P.R. 633/1972 prevede che il soggetto passivo ha il diritto di detrarre l’imposta assolta o dovuta o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione.
Circa l’inerenza del costo sostenuto e la detraibilità dell’Iva assolta sugli acquisti, si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 18904 del 17.07.2018 nella quale sono stati illustrati importanti principi, di carattere generale, fondati sull’orientamento espresso nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità, che ha fatto esplicito riferimento alla congruità e economicità dei costi sostenuti dall’imprenditore.
Anzitutto gli ermellini hanno sancito che l’inerenza costituisce un requisito fondamentale per la determinazione del reddito d’impresa e riguarda, in termini generali, l’esistenza di una relazione tra i costi e l’attività d’impresa; nello specifico, i costi sono inerenti se sono collegati all’attività d’impresa produttiva del reddito, soggetto a tassazione.
Sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale di riferimento ha assunto rilievo una valutazione quantitativa dei costi sostenuti e, quindi, l’utilità economica del componente negativo di reddito può essere – in linea di principio – apprezzata tenuto conto del quantum della spesa con conseguente inclusione, nella nozione di inerenza, anche dei profili di congruità e antieconomicità delle scelte imprenditoriali.
In controtendenza appare l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 450 dell’11.01.2018, ha riallineato la nozione fiscale di inerenza all’esercizio dell’attività d’impresa, affermando che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”, rimanendo esclusa ogni valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale o indiretta – o congruità “perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo”.
Tale approccio ermeneutico è stato confermato, in sede di legittimità, con l’ordinanza n. 3170 del 09.02.2018, ove i giudici hanno stabilito che esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un “apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità“, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma “costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa”.
Quindi, sulla base del più recente orientamento, il principio di inerenza esprime propriamente una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata e si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che sembrerebbe prescindere da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo.
Tuttavia, i giudici di piazza Cavour hanno osservato che ai fini delle imposte sui redditi, la valutazione dell’antieconomicità – ossia dell’evidente incongruità dell’operazione – legittima e fonda il potere dell’Amministrazione finanziaria di accertamento ex articolo 39, comma 1, lett. d), D.P.R. 600/1973, in base al principio secondo cui chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo “l’id quod plerumque accidit”, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, con la conseguenza che le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi o all’immotivata compressione di componenti positivi di reddito sono rivelatrici di un occultamento di capacità contributiva e la spesa, in realtà, non trova giustificazione nell’esercizio dell’attività d’impresa.
In buona sostanza, nel valutare l’inerenza del costo, appare essere configurabile un nesso tra i due giudizi (quello qualitativo e quantitativo) che risulterebbero quindi complementari sul piano strettamente probatorio: in particolare, “la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto, in realtà, non è correlato alla produzione ma assolve ad altre finalità e, pertanto, il requisito dell’inerenza è inesistente”.
Di contro, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria, tali immanenti principi non hanno diretta rilevanza nel settore Iva: per tale comparto impositivo, concludono gli ermellini, l’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria che intende contestare la mancanza di inerenza delle operazioni compiute e fatturate dal contribuente, risulta aggravato non assumendo di per sé rilievo la mera sproporzione o l’incongruenza tra costo e valore del bene o del servizio “se non quando tale antieconomicità risulti, alla luce di una complessiva valutazione, macroscopica, ossia del tutto evidente … sì da far ritenere, in termini rivelatori e indiziari, l’operazione – al di là delle ipotesi di frode od inesistenza – non correlata all’attività d’impresa”.