Investitore all’estero fai da te?
di Ennio Vial
La crisi in cui versa l’Italia negli ultimi anni porta molti operatori ad affacciarsi nei mercati internazionali sviluppando nuovi business in Paesi esteri dove si ritiene possibile, o quanto meno ci si auspica, di ottenere interessanti prospettive di sviluppo.
Il consulente che assiste questi fenomeni deve dotarsi di una particolare competenza sui temi dell’internazionalizzazione, pena il rischio di pesanti sanzioni in caso di futuri accertamenti da parte dell’Amministrazione Finanziaria.
Molti credono che sia sufficiente trovare un contatto nel Paese dove voglio indirizzarmi: ho un biglietto da visita ed il gioco è fatto!
La prima valutazione da fare, tuttavia, attiene alla reputazione dei consulenti. Alcune domande possono permettere di discernere gli operatori seri dai “farfalloni”. Innanzitutto, chiedete ed appurate da altre fonti se effettivamente questi consulenti vivono nel Paese che propongono o se sono invece residenti in Italia e, magari, nel paese estero hanno solamente un contatto o un ufficio che ha sede in un albergo.
L’assenza dal luogo porta a sottovalutare eventuali criticità connesse all’investimento e potrebbe configurarsi l’esterovestizione societaria se questi operano poi come amministratori delle nostre società. Come noto, infatti, la residenza fiscale dei soggetti societari è legata al luogo di amministrazione e all’oggetto dell’attività. Anche se la residenza dell’amministratore non dovrebbe incidere sul luogo di amministrazione della società estera, il fatto che il consulente viva in Italia potrebbe far sorgere la criticità evidenziata.
Se vivono in loco offriranno maggiori sicurezze ma ovviamente avranno meno competenze per quanto attiene alla visione italiana. Su temi particolarmente delicati attinenti alla disciplina italiana potranno dare un cenno ma, se seri, rinvieranno ad un professionista italiano. Diversamente, si improvviseranno esperti di modulo RW, di tassazione di flussi internazionali eccetera … dovrete quindi prestare la massima attenzione alla affidabilità di queste informazioni.
Molti ritrasmettono come un ponte radio informazioni approssimative captate in giro.
Questa attività di “discernimento” non è assolutamente facile ma i problemi non sono finiti.
Generalmente, l’investimento estero operato attraverso una società di diritto locale avviene direttamente da parte dell’imprenditore persona fisica oppure attraverso una società italiana non in base ad una valutazione ponderata, quanto piuttosto “a caso” o seguendo l’emozione del momento.
Le conseguenze delle diverse scelte sono notevoli: basta pensare al differente effetto sui dividendi rimpatriati a seconda dei due casi.
La persona fisica deve indicare l’investimento nel Modulo RW e versare l’IVAFE; le società (ad eccezione delle società semplici) sono esonerate da tali adempimenti.
Tra gli altri profili di criticità si annovera quello del transfer price, in quanto l’Amministrazione fiscale italiana – e spesso anche quella dell’altro Paese – cercheranno di evitare il drenaggio di materia imponibile verso Paesi a fiscalità ridotta.
Altro ulteriore aspetto cruciale è quello della tassazione CFC di cui all’art. 167 del tuir. Non alludo tanto a quella relativa ai paradisi fiscali, ormai studiata da oltre una decina di anni e tutto sommato conosciuta dagli operatori, quanto piuttosto alla più subdola cfc white list di cui al comma 8 bis del medesimo articolo 167. Basta scegliere un paese con una fiscalità inferiore alla metà di quella italiana e svolgere una attività qualificata come passiva (come ad esempio i servizi infragruppo) ed il gioco è fatto: il reddito della società estera viene tassato per trasparenza in Italia in capo al socio di controllo.
Devo dire che questo tema viene trascurato di più per cui prevedo conseguenze dirompenti negli anni avvenire quando i verificatori troveranno questo filone che oserei dire “d’oro”.
Altri aspetti sono poi la stabile organizzazione occulta e l’esterovestizione.
L’esterovestizione, tutto sommato, rappresenta forse l’ultimo dei problemi in quanto una organizzazione amministrativa adeguata, unita ad una effettiva gestione estera del business permette il superamento del problema.
In merito all’ipotesi della stabile organizzazione occulta si pensi all’agente monomandatario all’estero che ha il potere di concludere i contratti per conto dell’impresa o alla società interamente controllata priva di autonomia finanziaria, economica e decisionale.