Per quanto è dato comprendere dall’ermetica ricostruzione dei fatti esposta nell’ordinanza, la vicenda trae origine dall’impugnazione da parte del professionista di una cartella di pagamento inerente l’Irap non versata relativa all’anno d’imposta 2009. Nel dettaglio, il commercialista lamentava l’assenza dei presupposti richiesti dall’articolo 2 D.Lgs. 446/1997ai fini dell’assoggettamento all’Irap e, per conseguenza, domandava l’annullamento dell’atto impugnato.
Nonostante al primo grado di giudizio la CTP di Caserta gli avesse dato ragione, la sentenza veniva poi ribaltata innanzi alla CTR della Campania. Questa, infatti, accoglieva l’appello dell’Agenzia delle Entrate avendo desunto la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione solamente dall’importo elevato (l’ammontare esatto non si evince nell’ordinanza) dei redditi dichiarati dal commercialista (indicati dalla CTR come “rilevantissimi”) e dall’altrettanto rilevante ammontare dei costi da esso sostenuti (per questi invece l’ordinanza indica che ammontavano a € 147.767). Per il resto, il professionista non aveva dipendenti né beni strumentali di valore significativo.
Il commercialista, dunque, impugnava la sentenza innanzi alla Suprema Corte affidando le proprie doglianze a tre motivi, il primo dei quali consistente proprio nella violazione e falsa applicazione del predetto articolo 2 D.Lgs. 446/1997e nell’errato uso dei principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte sull’argomento.
Così i giudici di vertice accoglievano il primo motivo di ricorso e assorbivano gli altri due, cassando la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame, anche per le spese del giudizio, alla CTR della Campania in diversa composizione.
Nella parte motiva dell’ordinanza, la Suprema Corte ha dapprima dichiarato la fondatezza della doglianza del professionista relativa all’omessa sequela da parte della CTR del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite della Corte in materia di presupposto dell’Irap (cfr. Cassaz. SSUU, sent. n. 9451/2016), secondo cui “il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”.
I giudici di vertice hanno successivamente censurato la sentenza impugnata in quanto fondata su ben tre errori di diritto e segnatamente:
- in primo luogo, per aver omesso di dar conto della possibilità o meno di scorporare dai compensi percepiti dal contribuente (commercialista) quelli derivanti dalle attività di commissario straordinario e commissario liquidatore in procedure concorsuali o di membro di collegi sindacali o consigli di amministrazione;
- in secondo luogo, per aver assunto il valore assoluto dei costi come indice di autonoma organizzazione, prescindendo dall’esame della “tipologia” delle spese e quindi non indagando se detti costi, pur essendo di rilevante ammontare, afferissero ad aspetti personali rappresentativi di un mero elemento passivo dell’attività professionale, “non funzionale allo sviluppo della produttività e non correlato all’implementazione dell’aspetto organizzativo” (cfr. ordinanza citata);
- in terzo luogo, per aver ricavato l’esistenza dell’autonoma organizzazione dalla mera entità del valore della produzione, mentre “l’entità, anche elevata, dei compensi percepiti dal professionista, non può assurgere ad indice della sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione, potendo dipendere anche dalle capacità del singolo” (cfr. ordinanza citata).