Iva assolta in reverse charge sui servizi infragruppo dall’estero
di Fabio LanduzziLa questione della detraibilità dell’Iva assolta dalla società italiana a mezzo inversione contabile ex articolo 17, comma 2, D.P.R. 633/1972 (o articolo 46 D.L. 331/1993 per i servizi intracomunitari) nel caso di servizi infragruppo resi da altra società estera continua a far discutere e a presentare profili di incertezza che non favoriscono l’individuazione dei canoni minimi necessari perché le imprese appartenenti a gruppi multinazionali possano mettersi al riparo dal rischio di significative potenziali passività fiscali.
La Norma di comportamento AIDC n. 205 aveva affrontato il tema fornendo una soluzione equilibrata nella direzione di riconoscere che l’Iva assolta dal soggetto passivo residente mediante inversione contabile applicata alle fatture relative a spese per servizi infragruppo resi da soggetti esteri deve essere riconosciuta come detraibile, e ciò “anche” (e non “solo”) qualora siano contestati l’incongruenza della spesa o il comportamento antieconomico dell’impresa residente.
Ai fini della detraibilità dell’Iva, prosegue poi la citata Massima della Norma n. 205, l’impresa residente è tenuta solamente a dimostrare l’esistenza e la natura dei servizi acquistati, a fornire i relativi riscontri giustificativi e a provare che le relative spese presentano un nesso con le operazioni economiche compiute che danno diritto alla detrazione.
La questione, infatti, come noto, trae sempre l’origine dalla estensione al campo Iva delle contestazioni afferenti il presunto difetto di “inerenza” di tali spese aventi riguardo al comparto delle imposte sul reddito, laddove però – come argomenta ampiamente la Norma n. 205 – anche in questo ambito dovrebbero essere sviluppate almeno due considerazioni di rilievo:
- la prima, più generale, relativa al principio di “inerenza” e a come esso deve essere riletto alla luce della più recente e consolidata giurisprudenza (v. Cassazione n. 450/2018, 3170/2018, n. 13882/2018 e n. 18904/2018);
- la seconda, specificamente riferita al caso dei servizi infragruppo, soggetti ad una disciplina speciale quanto al loro riconoscimento ai fini delle imposte sul reddito, e precisamente alle disposizioni relative ai prezzi di trasferimento (articolo 110, comma 7, Tuir, come integrato dall’articolo 7 M. 14.05.2018 e dal Cap. VII delle Linee Guida Ocse in materia di prezzi di trasferimento, oltre che dai documenti pubblicati in materia dall’EU Joint Transfer pricing Forum).
Ora, anche prescindendo da questi aspetti, che pure sarebbero prodromici ad ogni altra ulteriore considerazione, vogliamo qui soffermarci su di un punto che pare essere tuttora spesso trascurato anche dalla recente giurisprudenza (si veda Cassazione n. 3599/2020): l’assolvimento dell’Iva, nel caso di specie, a mezzo reverse charge.
Infatti, questo aspetto è stato sì affrontato dalla citata sentenza della Cassazione ma l’analisi compiuta non pare essere condivisibile, in quanto appare incompleta.
Il punto centrale è il seguente: come affermato nella citata Norma n. 205, in assenza di frode e di una macroscopica irragionevolezza della spesa, l’Iva assolta in reverse charge deve essere riconosciuta come detraibile per l’impresa residente al fine di realizzare il fondamentale principio di neutralità dell’Iva.
Tale conclusione è tanto vera che proprio nel caso ben più patologico dell’operazione inesistente, l’articolo 6, comma 9bis3), D.Lgs. 471/1997 prescrive che, fatta salva l’applicazione della sanzione amministrativa prevista, “in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto, nelle liquidazioni dell’imposta, che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette (…)”.
Il punto allora è il seguente: quale razionalità avrebbe un sistema in cui fosse previsto che, in presenza di una operazione inesistente, l’Iva assolta dal ricevente in reverse charge viene espunta dall’accertamento – ossia, elisa con il debito registrato in reverse charge – mentre in presenza di una operazione esistente, ma di cui si discute solo su di un piano di inerenza “quantitativa”, la stessa imposta sarebbe resa indetraibile per il soggetto passivo italiano sì da tradursi in pratica in una sanzione aggiuntiva (impropria) a carico dello stesso, tale da penalizzare perciò, in modo assai più gravoso, proprio l’impresa che si rende partecipe di una operazione lecita ed esistente?
Al riguardo, la stessa Amministrazione, nella circolare n. 16 del 2017, al par. 5, affronta la questione chiarendo che la norma introdotta al comma 9bis3) si applica distintamente anche a tutti i casi di operazioni inesistenti (e non solo a quelle esenti, non imponibili o non soggette, come parrebbe invece trarsi da una certa interpretazione giurisprudenziale).
È assai esplicativo il passaggio della circolare, in cui si afferma che “la norma, infatti, ora dispone che, in sede di accertamento, venga espunto sia il debito che il credito computato nelle liquidazioni dell’imposta (eliminando così gli effetti dell’operazione contabilizzata), come già previsto per le operazioni esenti, non imponibili e non soggette cui è stato erroneamente applicato il sistema dell’inversione contabile”.
Non solo, proprio in quanto norma di carattere sanzionatorio, la stessa Amministrazione riconosce per essa l’applicazione del principio del favor rei, e quindi anche alle violazioni commesse prima del 1° gennaio 2016, i cui atti di recupero non siano definitivi.
Come premesso in apertura, vi è quindi l’auspicio che la questione Iva di tali operazioni possa essere risolta in modo chiaro ed univoco, a beneficio di tutti gli operatori e del sistema in generale.