La Cassazione apre al ravvedimento sulle frodi
di Alessandro CarlesimoIl ravvedimento operoso, disciplinato all’articolo 13 D.Lgs. 472/1997, è un istituto del diritto tributario che nel corso del tempo ha assunto progressivamente maggior rilievo nel rapporto tra fisco e contribuente, improntato sempre più a meccanismi di regolarizzazione spontanea delle violazioni fiscali. Tale evoluzione è sospinta dalla ratio legis di privilegiare la repressione ex ante degli errori, concentrando le attività di controllo ed accertamento su contribuenti poco collaborativi.
Sebbene l’ambito di applicazione della norma sia pressoché generalizzato con riferimento alle fattispecie sanzionabili in sede amministrativa, sussistono tuttavia difficoltà nel delineare compiutamente la portata della norma nel contesto penale-tributario, e ciò soprattutto alla luce di una recente pronuncia della massima Giurisprudenza che sembra dissociarsi dalle posizioni assunte dall’Amministrazione Finanziaria sul punto.
La questione affrontata nella Sentenza (Cass. n. 5448/2018) ha ad oggetto la corretta applicazione dell’articolo 13-bis D.Lgs. 74/2000 (in materia di attenuanti) ai sensi del quale, per accedere al patteggiamento della pena, è necessario il pagamento delle somme dovute a titolo di imposta, di sanzioni e di interesse prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, anche qualora il presunto soggetto attivo del reato estingua l’obbligazione tributaria avvalendosi degli strumenti deflattivi del contenzioso, ivi compreso il ravvedimento.
In diversi interventi di prassi (cfr. circolare 180/1998, Circolare GdF 1/2018, Risposte Telefisco 2018) viene di converso preclusa l’applicazione dell’istituto alle condotte fraudolente, ritenute particolarmente offensive per gli interessi erariali e, come tali, considerate non meritevoli di premialità legate ad autocorrezioni. Tale posizione dunque, esclude dall’alveo delle condotte ravvedibili, quei “comportamenti antigiuridici che non abbiano origine da un errore o da un’omissione”, e, segnatamente, le fattispecie che configurano reato di pericolo, tra le quali si annoverano il reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e, speculare al primo, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti; delitti trattati dal Legislatore con accentuato rigore punitivo.
L’orientamento dell’Amministrazione non è stato però condiviso dall’AIDC nella norma di comportamento n.202, in cui si evidenzia che l’estinzione volontaria del debito tributario è, di per sé, un fatto idoneo ad escludere il dolo specifico di evasione, presupposto soggettivo indispensabile per il perfezionamento del reato tributario. L’Associazione ha inoltre precisato che un’impostazione legislativa che permette il ravvedimento in modo selettivo limitandone l’attivazione ad alcune condotte penalmente rilevanti, costituisce una disparità di trattamento tra contribuenti che egualmente si adoperano per rimuovere la violazione sostenendo gli importi dovuti e (laddove necessario) rettificando e/o presentando le dichiarazioni fiscali.
Come sopra accennato, nuovi spunti di riflessione sul tema vengono forniti dal recente verdetto della Suprema Corte che fornisce una rinnovata chiave di lettura in merito alla praticabilità dello strumento di regolarizzazione in sede penale.
Nello specifico, la Terza Sezione Penale veniva chiamata a valutare l’applicabilità del patteggiamento ex articolo 444 c.p.p. in un processo in cui l’imputato (legale rappresentante di una società) era accusato di aver indicato, nelle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, elementi passivi fittizi documentati da fatture relative ad operazioni inesistenti.
La Procura impugnava la sentenza emessa dal Giudice Territoriale, nella quale il contribuente veniva ammesso al patteggiamento della pena senza che quest’ultimo avesse previamente ristorato la pretesa erariale mediante assolvimento integrale del tributo, delle sanzioni e degli interessi dovuti. Il Ricorrente osservava che il rappresentante della società avrebbe dovuto provvedere al pagamento del debeatur, comprensivo di sanzioni ed interessi, anche avvalendosi del ravvedimento, in quanto tale circostanza costituiva una condizione essenziale e necessaria per poter accedere al rito speciale.
Gli Ermellini giudicavano il ricorso fondato, confermando che l’estinzione dell’obbligazione tributaria mediante ravvedimento rappresenta una delle condizioni per poter fruire dei benefici di cui all’articolo 13-bis, D.Lgs. 74/2000 citato, ancorché la condotta accertata fosse riconducibile all’ utilizzo di fatture false.
La conclusione cui perviene il Giudice di Legittimità estende quindi l’applicabilità del ravvedimento alle ipotesi di frode a mezzo di dichiarazione mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, ponendosi in netto contrasto con l’interpretazione del Fisco ed aprendo uno spiraglio alla possibilità di ricorrere all’autocorrezione anche nelle altre ipotesi di reato connotate da un impianto fraudolento e simulatorio.
Date le divergenti interpretazioni susseguitesi, sarebbe auspicabile un aggiornamento di prassi che recepisca quanto sancito nella menzionata pronuncia, sia pure al fine di assecondare la consolidata tendenza legislativa diretta a promuovere la compliance del contribuente.