La Cassazione e le (soltanto apparenti) “certezze” sulla fiscalità indiretta del trust
di Sergio PellegrinoCon 12 sentenze concentrate in due giornate soltanto (rispettivamente 7 il 21 giugno e 5 il 12 settembre), la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha “apparentemente” indicato agli operatori “la” strada da seguire per la corretta tassazione a livello di fiscalità indiretta dei trust.
Sottolineo “apparentemente” perché non riesco a condividere il favore con il quale queste pronunce sono state commentate da parte di autorevoli colleghi sulla stampa specializzata.
Il mio non vuole essere, almeno in questo frangente, un approccio “pragmatico”, basato sulla constatazione che, nella maggior parte dei casi, applicare la tesi dell’Agenzia e liquidare immediatamente l’imposta di successione e donazione sia conveniente per i contribuenti, ma unicamente incentrato sulla lettura e l’analisi di queste sentenze.
Comprendo che quella parte della dottrina, notariato in primis, che ha sempre sostenuto la tesi antitetica della tassazione “finale” del trasferimento dei beni in trust, abbia voluto “cavalcare” questa ondata di sentenze, ma, per quanto mi sforzi, continuo a pensare che solo sentenze ben strutturate e con una corretta enunciazione di principi di diritto condivisibili, e non l’esito del contenzioso tout court, possano determinare un orientamento giurisprudenziale destinato a indirizzare in modo efficace il comportamento dei contribuenti.
Se ci soffermiamo sulla lettura di queste pronunce, senza limitarci soltanto a considerarne l’esito pro o contro l’Amministrazione finanziaria, non possiamo non ravvisare come esse abbiano una base tutt’altro che solida.
La strutturazione copia-incolla di queste sentenze, con una breve parte introduttiva della fattispecie, un corpo centrale sempre replicato, a prescindere dalla tipologia di trust esaminato, delle conclusioni estremamente succinte, non può rappresentare, almeno dal mio punto di vista, la soluzione a un dibattito che ormai dura da moltissimi anni.
Volendo tacere delle “imprecisioni” sostanziali, che rischiano di alimentare ulteriori dubbi, come la qualificazione di autodichiarato per un trust che tale non è (quale quello delle sentenze 22755/2019 e 22756/2019 in cui il ruolo di trustee è assunto dalla figlia dei disponenti), l’aspetto che rende maggiormente perplessi è quello della “valorizzazione”, di strutture di trust sulla cui legittimità, molto probabilmente, un giudice civile potrebbe avanzare più di qualche dubbio.
Se, ad esempio, prendiamo la sentenza 22754/2019, questa individua come elemento dirimente per giustificare la non-tassazione dell’atto di dotazione la coincidenza della figura del disponente, del trustee e del beneficiario finale: “Nell’ipotesi di specie, ove la figura del disponente e del trustee coincidono, in cui vi è anche la possibilità che il beneficiario finale si identifichi con il disponente stesso, manca per le ragioni sopra esposte il presupposto impositivo del reale arricchimento effettuato attraverso un effettivo trasferimento di beni e diritti. Con tale tipo di trust, definito autodichiarato, il disponente provvederà a beneficiare i suoi discendenti o anche sè stesso, se ancora in vita al momento della scadenza”.
C’è poi una pronuncia la cui portata, dal mio punto di vista, è stata sottovalutata: si tratta della sentenza 22758/2019, che ha “rovinato” l’en plein a favore dei contribuenti (fino a quel momento 11 su 11), legittimando la tassazione proporzionale dell’atto di dotazione di un trust benefico (o, almeno, asseritamente tale).
Il trust in questione è un trust di scopo istituito in Nuova Zelanda con il trasferimento a un trustee neozelandese di un importo superiore a 4 milioni di euro a mezzo di nove assegni circolari non trasferibili: senza conoscere la fattispecie e a voler essere “maligni”, molti di noi per fare un trust con finalità benefiche probabilmente avrebbero pensato ad una strutturazione diversa (e magari lo stesso pensiero l’hanno avuto i giudici).
L’Agenzia ha applicato l’imposta sulle successioni e donazioni con l’aliquota dell’8%, vincendo in tutti i gradi di giudizio e vedendo la Suprema Corte riconoscere la bontà del suo operato, con l’affermazione che “La consegna degli assegni unitamente all’attribuzione in capo al trustee, società in Nuova Zelanda, di operare direttamente per le finalità liberali e filantropiche fa ritenere, alla luce dei principi sopra esposti, pertanto, realizzato il presupposto impositivo dal D.L. n. 262 del 2006, art. 2”.
Se questo è il principio di diritto da seguire, e cioè che ciò conta è l’attribuzione al trustee delle risorse per “operare direttamente” per l’attuazione delle finalità previste, appare difficile comprendere come, nella sentenza “fotocopia” 16699 del 21 giugno, il collegio giudicante, presieduto dallo stesso giudice Chindemi, sia arrivato a conclusioni diametralmente opposte (in modo analogo a quanto aveva fatto, nella medesima fattispecie, la sentenza 1131/2019, definita da queste pronunce la “posizione di arrivo” nel dibattito giurisprudenziale).
Queste due sentenze avevano analizzato il caso del trust di scopo istituito dalla Cassa di Risparmio di Perugia con l’affidamento al trustee dei fondi necessari per la riqualificazione dell’aeroporto del capoluogo umbro: i giudici avevano in questo caso ritenuto non applicabile l’imposizione proporzionale sull’atto di dotazione, sulla base del presupposto che “per l’applicazione dell’imposta di donazione, così come di quella proporzionale di registro ed ipocatastale, è necessario che si realizzi un trasferimento effettivo di ricchezza mediante attribuzione patrimoniale stabile e non meramente strumentale”.
Al di là del differente scopo finale – da un lato, per il trust neozelandese, la beneficenza, dall’altro, per quello umbro, il supporto finanziario ad un’opera di interesse pubblico – non si comprende come l’esito dal punto di vista della tassazione possa essere stato così radicalmente diverso.
Il problema, dal mio punto di vista, è che quando i principi di diritto sono poco chiari, questi possono essere “piegati” sulla base di una valutazione di “convenienza” (se non addirittura “etica”, ma certamente non giuridica) del caso specifico: così operando, però, l’unico risultato che si consegue è quello di alimentare ulteriormente la confusione interpretativa.