La Cassazione si esprime sul “tovagliometro”
di Luigi FerrajoliPresunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti inducono a ritenere l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 600/1973.
Tali presunzioni, quando l’Amministrazione agisce nei confronti di esercizi di ristorazione, possono essere rinvenute anche nell’utilizzo dei tovaglioli: ad ogni coperto corrisponde un tovagliolo, più una piccola percentuale di tolleranza, ma oltre tali limiti l’Agenzia delle Entrate procede con l’accertamento analitico-induttivo dei redditi.
E’ così che l’Amministrazione ha agito nei confronti di una società e dei suoi soci, ai quali sono stati notificati ben quindici avvisi di accertamento emessi ai fini IRPEG, IRPEF, IRAP e IVA per gli anni 1998, 1999 e 2000, con i quali sono stati recuperati a tassazione i maggiori redditi d’impresa e di partecipazione non dichiarati, sulla base del numero dei pasti – desumibile dal consumo dei tovaglioli di carta, ridotto di una percentuale di errore del 25% c.d. “sfrido” e di stoffa adoperati – maggiore di quelli risultanti dalle fatture e ricevute fiscali emesse negli anni in contestazione.
Avverso tali atti sia la società che i soci proponevano ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria di primo grado di Trento, che accoglieva parzialmente le doglianze sollevate; i giudici di secondo grado accoglievano il gravame proposto dall’Agenzia e confermavano la legittimità dell’accertamento effettuato, disattendendo l’appello incidentale proposto dai contribuenti.
La vicenda giungeva quindi in Cassazione, in quanto, ad avviso dei contribuenti, i giudici di appello avrebbero errato nel ritenere legittimi gli accertamenti induttivi operati, ai sensi dell’art. 39, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, sulla base di rilievi formali di modesta entità, in presenza di una contabilità complessivamente regolare e nei confronti di soggetti i cui ricavi e corrispettivi dichiarati, nel triennio in contestazione, erano stati sempre coerenti con quelli previsti dagli specifici studi di settore.
La Suprema Corte, con la sentenza n. 20060/14 del 24.09.2014 rigetta il ricorso proposto dai contribuenti e conferma la legittimità del metodi di ricostruzione del reddito societario utilizzato dall’Ufficio.
Confermando precedenti orientamenti, i giudici di palazzaccio osservano che l’accertamento analitico-induttivo presuppone scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata, sicché possa essere considerata, nel suo complesso, inattendibile.
Nel caso di specie, i rilievi mossi al contribuente circa la mancata conservazione ed esibizione degli inventari delle merci in giacenza, della conservazione delle ricevute fiscali, la non corrispondenza tra i corrispettivi annotati nei registri Iva con quelli risultanti dai documenti fiscali e la inattendibilità dei redditi dichiarati a fronte dei volumi di affari realizzati in ciascun anno contestato, sono stati puntualmente evidenziati dal giudice di appello.
La complessiva inattendibilità della contabilità così delineata, seppur a fronte della regolarità meramente formale, ad avviso dei Giudici, è idonea a legittimare l’accertamento induttivo, espletato dall’Ufficio sulla base del riscontro relativo al consumo dei tovaglioli utilizzati.
In materia la Corte ha più volte affermato che è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati (risultanti, per quelli di carta, dalle fatture o ricevute di acquisto, e per quelli di stoffa, dalle ricevute della lavanderia); per ciascun pasto ogni cliente adopererebbe normalmente un solo tovagliolo e, quindi, il numero di questi rappresenterebbe un fatto noto idoneo a lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati; altrettanto ragionevolmente, ad avviso dei giudici, occorre sottrarre al totale una certa percentuale di tovaglioli utilizzati normalmente per altri scopi, c.d. percentuale di sfrido (Cass. n. 9884/2002, Cass. n. 15808/2006, Cass. n. 13068/2011).
Circa il secondo aspetto evidenziato, i Giudici osservano che gli studi di settore costituiscono solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione per accertare in via induttiva il reddito reale del contribuente e, pertanto, in presenza di altri elementi da cui emergono gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati, la congruità agli studi non impedisce l’accertamento.