La certezza del diritto perde in commissione
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365La problematica di rendere certe le disposizioni normative tributarie, soprattutto in riferimento alla tematica delicata dell’abuso del diritto, è stata per lungo tempo al centro dell’attenzione del dibattito dottrinale e del legislatore medesimo. Durante l’estate appena trascorsa ha visto la luce proprio il decreto sulla “certezza del diritto”, probabilmente denominazione fin troppo azzardata, con cui si è cercato di dettare delle linee guida per delimitare il perimetro degli accertamenti in materia di “abuso”, attribuendo all’Amministrazione finanziaria il compito di provare le proprie determinazioni e al contribuente l’onere di evidenziare che il risparmio fiscale non è stato affatto il solo scopo perseguito nel porre in essere l’operazione. Le critiche alla norma sono state molteplici e solo il tempo saprà dirci in che misura il legislatore è stato efficace nel contenere una modalità di accertamento che è stata usata in diverse occasioni in maniera disinvolta. Più incisivo è stato l’intervento in materia di raddoppio dei termini, laddove in maniera chiara è stato precisato che lo stesso interviene solo se la segnalazione del reato tributario sia stata effettuata entro il termine ordinario di scadenza dell’avviso di accertamento. Rapportando però questi interventi all’universo eterogeneo della normativa fiscale e dei suoi interpreti appare evidente che si tratta di approcci sterili, soprattutto in considerazione dell’ampio spazio dato alla libertà interpretativa di ognuno dei protagonisti (fisco, contribuente, legislatore e giudice).
La “testimonianza” dello stato confusionario del diritto tributario italiano e della relativa applicazione ci viene offerta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Benevento (ma gli esempi di conflittualità nelle decisioni delle commissioni sono centinaia), che a distanza di pochi mesi, nell’ambito delle stessa sezione e con i medesimi giudici (solo un componente cambia tra una sessione e l’altra), riesce sconfessarsi da sola.
Il tema affrontato, anche questo delicatissimo e di estrema attualità, è quello della firma dell’avviso di accertamento ad opera di un dirigente illegittimo. Che questi sia incluso nel famoso elenco è innegabile: deve dunque stabilirsi se l’atto medesimo possa o meno ritenersi validamente formato. Nella sentenza n. 736/07/15 depositata il 28 luglio 2015, la sezione 7 assume una posizione decisa e tranciante: “(…) va evidenziato che gli atti impugnati risultano firmati dal Capo Ufficio Controlli Dott…., per delega del Direttore Provinciale di cui al provvedimento n. 6 dell’11 febbraio 2013. Tuttavia il suddetto firmatario degli atti non risulta nell’elenco dei Dirigenti dell’Agenzia delle Entrate consultabile sul sito della stessa Agenzia. Pertanto, per effetto della sentenza della Corte Costituzione n. 37/27105, tali atti sono affetti da nullità assoluta ed insanabile essendo stati firmati dai dirigenti nominati senza concorso pubblico. Inoltre, tale nullità assolta ed insanabile può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e rilevata d’ufficio dal giudice tributario, in ogni stato e grado del procedimento, trattandosi di atti viziati da difetto assoluto di attribuzione”.
Non c’è che dire, una decisione puntuale e che appare condivisibile, dato tra l’altro l’affidamento del contribuente a che gli atti della pubblica amministrazione siano assunti da soggetti legittimati a farlo: scoprire successivamente che ciò non è avvenuto è evidentemente una condizione che legittima l’eccezione in ogni stato e grado del giudizio, come larga parte della giurisprudenza di merito continuamente ribadisce.
Con la successiva sentenza n. 819/07/15, depositata in data 29 settembre 2015, la stessa sezione 7 della commissione sannita giunge però a delle conclusioni diametralmente opposte, affermando, a fronte di atto firmato dal medesimo funzionario, che lo stesso era validamente formato. In particolare l’organo giudicante si sofferma sulla distinzione tra la delega di firma e la delega di funzioni, ignorando in toto la circostanza che il dirigente in questione sia illegittimo. Questa la motivazione utilizzata: “In buona sostanza la delega di firma, la quale tiene inevitabilmente conto delle esigenze organizzative dei pubblici uffici, non comporta alcuno spostamento della competenza dal delegante al delegato ma consente a quest’ultimo di sottoscrivere l’atto in luogo del primo, fermo restando il fatto che la paternità dell’atto sottoscritto rimane in capo a quest’ultimo. Inoltre, l’istituto della delega di firma deve essere tenuto distinto dagli atti di conferimento di incarichi dirigenziali emanati sulla base della disposizione normativa dichiarata illegittima dalla sentenza della Corte Costituzionale numero 37 del 2015”.
In linea di principio anche le conclusioni dianzi richiamate sembrano fondate e pertanto sarà interessante conoscere, in futuro, quale tesi sarà premiata da parte della Corte di Cassazione, presumibilmente unica deputata a dirimere l’intricata matassa (sempre se ci sarà una futura posizione univoca). Resta però il dilemma del comprendere quale sia la corretta interpretazione da attribuire agli atti firmati dal funzionario in questione e soprattutto quale sarà la posizione della Commissione in commento, essendo evidente una sola certezza: tra i contribuenti parte attiva dei separati contenziosi vi è stata una completa disparità di vedute.