17 Ottobre 2014

La cessione “in famiglia” della licenza taxi non genera plusvalenza

di Leonardo Pietrobon
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Il trasferimento a soggetti terzi,
appartenenti all’ambito familiare, della licenza di un taxi
non è configurabile
ipso facto come
cessione d’azienda. Questo è in estrema sintesi il principio espresso dalla
Corte di Cassazione con l’ordinanza 29 settembre 2014 n. 20533.
Sulla base di tali indicazioni, quindi, a parere della Cassazione l’eventuale
plusvalenza realizzata dalla “cessione” della licenza del taxi
non concorre alla formazione del reddito imponibile.
La questione presa in esame dalla Suprema Corte trae origine dal trasferimento della licenza di un taxi per la quale l’Agenzia delle Entrate, in modo induttivo, ha accertato la plusvalenza derivante da tale operazione. In particolare, il ricorso all’
accertamento induttivo, da parte del competente Ufficio dell’Agenzia delle entrate, è stato adottato a seguito della
mancata risposta al questionario inviato al contribuente, oltre al fatto che lo stesso contribuente ha
omesso la presentazione della documentazione comprovante la “
determinazione del corrispettivo conseguito”, quale
l’atto di cessione del taxi o qualunque altro documento che potesse attestare il valore della tassazione.
Sulla base di tali “omissioni”, di conseguenza, l’Ufficio ha ritenuto legittimo il ricorso a tale modalità accertativa, basando le proprie conclusioni su
presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza stabilite dall’articolo 39 D.P.R. n.600/73. Da un punto di vista operativo, le conclusioni accertative dell’Ufficio sono state il frutto delle risultanze dell
’attività investigativa svolta dall’Ufficio Analisi e Ricerca della Direzione Regionale che si era servito di numerosi elementi, indispensabili ad una corretta e precisa individuazione della fattispecie.
Sulla vicenda sia la CTP che la CTR competenti hanno respinto rispettivamente il ricorso introduttivo e il successivo appello. I giudici hanno motivato le proprie decisioni in base al principio secondo cui
il trasferimento a terzi della licenza taxi è configurabile come
cessione d’azienda e l’eventuale plusvalenza realizzata dal titolare a seguito della vendita costituisce
reddito fiscalmente rilevante ed imponibile ai fini delle imposte dirette.
Avverso la decisione dei giudici di secondo grado, il contribuente ha proposto ricorso innanzi alla Corte di Cassazione sostenendo che la CTR
avrebbe eluso il dovere di
stabilire
se, per effetto della cessione della licenza di taxi,
si sia effettivamente realizzato un trasferimento di ricchezza, anche in considerazione del fatto che la
cessione era avvenuta tra padre e figlio. Tale circostanza (trasferimento tra padre e figlio), sempre a parere del ricorrente, dovrebbe far rientrare
il trasferimento “presuntivamente gratuito” e quindi non atto a generare una plusvalenza imponibile.
Sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione, come già anticipato, ha accolto il ricorso del contribuente, confermando un principio già affermato dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza 25/02/1998, n. 2067. In particolare, a parere dei giudici della Suprema Corte, la CTR ha respinto l’appello del contribuente sulla scorta del
puro e semplice assunto che la plusvalenza realizzata a mezzo di cessione d’azienda
costituisce reddito fiscalmente rilevante
senza
in alcun modo avere motivato il proprio convincimento in ordine alla natura onerosa della cessione di cui trattasi, e ciò per quanto la parte appellante avesse specificamente evidenziato che la cessione è intervenuta all’interno del nucleo familiare, elemento di fatto che certo avrebbe dovuto indurre il giudicante ad una specifica attenzione alla modalità con le quali la cessione qui oggetto di esame si è concretamente realizzata. E d’altronde, – si legge ancora in sentenza – non ci si può esimere dal considerare che anche in merito agli elementi presuntivi che si assumono debitamente considerati dall’Agenzia ai fini del ricorso al metodo induttivo di accertamento, la motivazione della sentenza appare apodittica ed illogica, avendo il giudicante ritenuto che la parte contribuente si sia sottratta all’onere di produrre ‘qualunque scritto potesse attestare il valore di transazione ovvero la documentazione idonea alla determinazione del corrispettivo conseguito, così dimostrando di avere dato per implicitamente presupposta la natura onerosa della cessione, senza però esplicitare le ragioni di una tale dirimente presupposizione”.
In sostanza, quindi, sulla base di quanto stabilito dalla Corte di Cassazione il recupero della plusvalenza
è illegittimo se non c’è prova del pagamento di un prezzo; ne consegue che, prima di recuperare a tassazione una plusvalenza il
giudice deve accertare se un trasferimento di ricchezza si sia effettivamente realizzato o meno, essendo infatti necessario escludere che si sia trattato di un
atto a titolo gratuito che non costituisce realizzo di plusvalenza.