La compensazione delle spese di giudizio solo per gravi ed eccezionali ragioni
di Massimo Conigliaro
Ancora oggi, frequentemente, si assiste ad una immotivata compensazione delle spese di giudizio da parte del giudice tributario ovvero ad una stereotipa motivazione sul punto: la recente Sentenza della CTR Lazio, Sezione 1^ (Pres. Lauro, Rel. Tozzi), n. 175/01/13 del 3.4.2013, offre lo spunto per una disamina dell’argomento.
E’ noto che la novella legislativa portata dalla L. 18.6.2009, n. 69, ha rimodulato il comma 2, art. 92, Codice di Procedura Civile in tema di spese di giudizio, norma espressamente richiamata – e dunque applicabile al processo tributario – dall’art. 15, D.Lgs. n.546/92.
Prima della modifica normativa, in estrema sintesi, la Commissione Tributaria poteva disporre la compensazione delle spese di giudizio con una pressoché insindacabile valutazione di ricorrenza di “giusti motivi”, anche nel caso di totale accoglimento delle ragioni di una delle parti. La discrezionalità del giudice, assai ampia in passato, era giustificata dalle più svariate ragioni – più o meno ricorrenti – quali la particolare complessità della materia, le diverse interpretazioni della prassi amministrativa, la giurisprudenza altalenante e così via.
Il tutto era inoltre “confortato” da un orientamento della Corte di Cassazione che, nel tempo, ha ritenuto insindacabile in sede di legittimità la valutazione del giudice di merito, salvo il controllo sull’indicazione di ragioni palesemente illogiche tali da inficiare il processo formativo della volontà decisionale. In particolare, il potere del giudice di pronunciare la compensazione delle spese fra le parti non era arbitrario, discrezionale o svincolato dalla correlativa disposizione che imponeva di gravare il soccombente del costo economico della lite. Laddove il giudice riteneva di derogare a tale principio, le ragioni dovevano essere manifestate in modo intellegibile: oscillazioni giurisprudenziali sul thema decidendum, oggettive difficoltà di accertamento dei fatti dedotti in causa, ovvero palese sproporzione fra l’interesse realizzato dalla parte vittoriosa ed il costo delle attività processuali richieste (così la Corte di Cassazione, con Sentenza 30.7.2008, n. 20598).
Peraltro la Corte Costituzionale, con Sentenza n. 274/2005, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 3 D.Lgs. n. 546/92, per violazione del principio di ragionevolezza, nella parte in cui non prevedeva la statuizione sulle spese anche nelle ipotesi di cessazione della materia del contendere. L’applicazione di tale principio presuppone, dunque, una valutazione prognostica dell’esito della lite e della condotta complessiva tenuta dalle parti nei gradi di giudizio. La richiesta della compensazione “ope legis” delle spese processuali nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante il principio di responsabilità per le spese di giudizio, si tradurrebbe in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento di regola determinato dalla fondatezza delle altrui ragioni e, corrispondentemente, in un ingiustificato pregiudizio per la controparte obbligata ad avvalersi dell’assistenza onerosa di un difensore tecnico.
Laddove pertanto l’autotutela risultasse esercitata dalla Pubblica Amministrazione allo scopo di aggirare una condanna alle spese, trova applicazione il principio della c.d. “soccombenza virtuale” in base al quale il giudice deve provvedere sulle spese, valutando se la domanda sarebbe stata accolta o rigettata nel caso in cui non fosse intervenuta la cessazione della materia del contendere (cfr. ex pluribus C.T.R. Catanzaro, Sentenza n. 495/1/09 ).
Oggi, dopo la novella legislativa, è possibile disporre la compensazione delle spese di lite soltanto qualora vi sia soccombenza reciproca ovvero nel caso di “gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”. Il principio della soccombenza costituisce dunque la regola, la compensazione l’eccezione da motivare adeguatamente.
La CTR Roma, con la recente Sentenza n. 175/1/13 resa dalla 1^ sezione, ha ribadito che è necessario valutare il comportamento delle parti per farne discendere la conseguenza in ordine all’onere di sopportare le spese del giudizio. Nel caso trattato dai giudici capitolini, la parte contribuente – vittoriosa in primo grado – aveva impugnato la Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale solo sul capo delle spese di giudizio, compensate senza alcuna specifica motivazione. La CTR ha accolto l’appello osservando come i “primi giudici non hanno individuato le gravi ed eccezionali ragioni per decidere la compensazione delle spese”. Deve pertanto “farsi riferimento al consolidato insegnamento della Corte di Cassazione (vedi da ultimo la sentenza n. 18894/2011), secondo cui un’immotivata compensazione delle spese del giudizio si risolve, per la parte vittoriosa, in una sostanziale soccombenza di fatto, con violazione del principio di responsabilità che presiede alla disciplina dettata dagli artt. 91 e 92 cpc.”.
La CTR Roma condanna pertanto la Pubblica Amministrazione alla refusione delle spese di lite per aver costretto la contribuente ”a resistere alla pretesa impositiva, con danno economico consequenziale”.