La comunione dei beni non frena il redditometro
di Maurizio Tozzi – Comitato Scientifico Master Breve 365
La comunione dei beni non frena il redditometro. È comunque necessario valutare la reale capacità contributiva del contribuente e il rapporto intercorrente tra tale capacità e reddito accertato.
Queste le importanti conclusioni della recente sentenza n. 28415 della Cassazione, il cui deposito è avvenuto lo scorso 19 dicembre 2013. La motivazione della sentenza è in realtà stringata ma efficace. Trattasi di un caso classico di applicazione del redditometro, che resterà immutato anche nella nuova versione in dirittura di arrivo ed applicabile per gli accertamenti dal 2009 in poi, ossia l’acquisto di un immobile, prova evidente di capacità economica. Entrambi i contendenti si sono “lamentati” della sentenza della CTR:
- da un lato l’amministrazione finanziaria, che contestava l’assunto utilizzato secondo cui essendo l’acquisto avvenuto in regime di comunione dei beni, allora il 50% dello stesso doveva essere attribuito al coniuge;
- dall’altro il contribuente medesimo, che riteneva addirittura non sussistenti i requisiti di applicazione del redditometro.
I Giudici di piazza Cavour hanno optato per dichiarare cassata la sentenza impugnata proprio in considerazione dell’assenza di un’idonea valutazione della capacità contributiva del contribuente, decidendo per il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale che dovrà, pertanto, valutare se realmente il reddito accertato evidenzia l’infedeltà del contribuente oppure, di contro, che quest’ultimo è in grado di dimostrare le modalità con cui ha proceduto all’acquisto. In parole povere, non è sufficiente fermarsi alla mera dichiarazione che l’acquisto è avvenuto in regime di comunione dei beni, ma è necessario dimostrare come l’acquisto stesso sia avvenuto e provare che il reddito accertato in realtà è spropositato rispetto al reddito dichiarato.
La sentenza in commento si pone dunque nel solco delle diverse decisioni dei giudici di legittimità in materia di redditometro, secondo cui al contribuente è concessa la più ampia facoltà difensiva che però deve fondarsi su elementi e circostanze certe o comunque logicamente attendibili.
Il caso dell’acquisto dell’immobile è proprio una delle evenienze maggiormente accertate e considerate dalla giurisprudenza.
La vecchia normativa consentiva all’amministrazione finanziaria di suddividere l’importo speso per l’acquisto, adeguatamente nettizzato di eventuali finanziamenti o mutui ricevuti, in cinque annualità (l’anno di acquisto e i quattro precedenti). Al contribuente l’onere di dimostrare da dove avesse attinto le fonti necessarie per l’acquisto.
Sul tema, si rammenta che la Cassazione ha sempre accettato le modalità difensive con un ben preciso rigore logico che può definirsi costituzionalmente orientato:
- da un lato richiedendo il c.d. nesso eziologico, ossia il collegamento della fonte economica alla disponibilità utilizzata;
- dall’altro ammettendo la più ampia dimostrazione circa il sostenimento della spesa.
Quanto al nesso eziologico, i giudici di piazza Cavour hanno ritenuto valide le linee difensive che dimostrano la disponibilità della fonte utilizzata in data antecedente a quella dell’acquisto, respingendo al mittente le difese che si sono limitate ad asserire che nel periodo d’imposta quella precisa disponibilità è stata conseguita: è l’ipotesi, ad esempio, di un introito dovuto alla dismissione di un bene avvenuto però dopo l’acquisto dell’immobile che ha generato l’accertamento (e sul tema, in effetti, l’articolo 53 della Costituzione appare decisivo, posto che all’atto di acquisto il contribuente ha manifestato una ricchezza che, se non derivante da fonti lecite, ha inesorabilmente violato il principio della concorrenza dei cittadini alle spese statali secondo criteri di progressività).
Relativamente, invece, all’onere probatorio ampio, è sempre il citato articolo 53 a non consentire alternative: è evidente infatti che se il contribuente ha utilizzato fonti lecite o disponibili di terzi, egli non può essere accertato. Il caso più importante riguarda l’intervento dei familiari, come nell’ipotesi dei genitori che sostengono i figli nell’acquisto di un immobile (al riguardo, esplicativa è la sentenza della Corte di Cassazione n. 17805 del 17 ottobre 2012).
Ma anche l’amministrazione finanziaria nei diversi documenti di prassi ha sempre sottolineato la possibilità di un’ampia portata difensiva, oltre a ciò che è sottolineato dalla circolare n. 49 del 2007, anche con le recenti circolari n. 12 del 2010, n. 28 del 2011 e n. 25 del 2012, relative all’utilizzo del risparmio accumulato nel tempo e delle reali occorrenze finanziarie del contribuente.
Il nuovo redditometro, peraltro, prevede espressamente tale facoltà, non soltanto nella disposizione di cui all’articolo 38 del DPR 600/73, ma anche nel decreto attuativo (articolo 4 del DM 24 dicembre 2012), commentati nella circolare n. 24 del 2013.
Nel caso analizzato dalla sentenza n. 28415 del 2013 in commento, pertanto, le conclusioni sono chiare: a fronte dell’acquisto di un immobile, sul piano redditometrico non è sufficiente la mera affermazione che lo stesso ricade in comunione di beni e dunque l’importo accertabile è da suddividere tra i coniugi, ma è sempre indispensabile la dimostrazione delle modalità con cui è stato perfezionato l’acquisto. E posto che il nuovo redditometro, in luogo della vecchia ripartizione in quinti dell’incremento patrimoniale, prevede che lo stesso incida per intero nell’anno di acquisto, il consiglio pratico assolutamente ineludibile è di conservare compiuta documentazione tracciata delle fonti utilizzate.