5 Dicembre 2018

La crisi d’impresa non esclude il reato di omesso versamento

di Marco Bargagli
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Come noto, il legislatore prevede due precise ipotesi penalmente rilevanti in caso di omesso versamento di ritenute certificate ed omesso versamento dell’Iva dovuta.

Nello specifico:

  • ai sensi dell’articolo 10-bis D.Lgs. 74/2000, rubricato “Omesso versamento di ritenute certificate”, é punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta le ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione ossia risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.
  • ai sensi dell’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000 rubricato “Omesso versamento di IVA”, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a duecentocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.

Al di là della previsione legislativa sopra illustrata è molto importante valutare, ai fini della realizzazione del reato in rassegna, quali effetti possa recare uno stato di crisi – momentanea o perdurante nel tempo – che investe l’impresa nel suo complesso.

Sul punto la contingenza economica potrebbe, in linea di principio, costituire causa di forza maggiore idonea ad escludere, ai sensi dell’articolo 45 c.p., il reato di omesso versamento dell’Iva e/o delle ritenute certificate.

In merito, la circolare n. 12, della Fondazione Centro Studi dell’Unione Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (UNGDC), emessa in data 2 aprile 2013, ha già approfondito il tema delle conseguenze penali riferite all’omesso versamento di ritenute certificate e dell’Iva dovuta dall’impresa.

In particolare, il citato documento ha chiarito che, perché possa escludersi la sussistenza del dolo (anche nella forma del dolo c.d. eventuale), è necessario che:

  1. risulti integrata una situazione di vera e propria insolvenza (non mera illiquidità temporanea);
  2. detta situazione abbia avuto origine in un momento anteriore o, quantomeno, concomitante alla scadenza del termine entro il quale, secondo le disposizioni tributarie, l’Iva avrebbe dovuto essere versata e sia ancora in essere alla scadenza del termine sancito dall’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000 (ossia il 27 dicembre di ogni anno);
  3. tale perdurante situazione di insolvenza non sia stata causata (o con-causata) dallo stesso imprenditore;
  4. la perdurante situazione di insolvenza sia stata “gestita” dall’imprenditore, dal momento in cui l’insolvenza stessa si è conclamata, sino al momento in cui è scaduto il termine di cui all’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000, nel rispetto delle regole civilistiche che disciplinano i pagamenti.

Solo a queste condizioni, tutte necessariamente oggetto di una complessiva allegazione, sarà possibile escludere la sussistenza del dolo da parte dell’agente, il quale non paga l’imposta non perché non vuole, né perché ha accettato il rischio del verificarsi della impossibilità di adempiere, ma perché “non può” pagare per cause realmente indipendenti dalla sua volontà.

Con riferimento alla rilevanza penale dell’omesso versamento dei tributi è recentemente intervenuta la Corte di cassazione, sezione 3^ penale, con la sentenza n. 47482 del 18.10.2018 con la quale i Supremi giudici hanno condannato un imprenditore per omesso versamento delle ritenute, anche se l’impresa versava in un evidente stato di crisi finanziaria.

La difesa dell’imputato sosteneva che avrebbe dovuto essere valutata l’insussistenza dell’elemento psicologico del reato, considerata l’impossibilità della ricorrente – per la situazione di difficoltà economica dell’impresa – di adempiere al debito d’imposta. Doveva quindi essere esclusa, secondo la tesi sostenuta dalla difesa di parte, la penale responsabilità del reo per forza maggiore o mancanza di dolo.

Infatti, la parte ricorrente aveva fatto tutto il possibile per versare la somma dovuta:

  • ottenendo un mutuo ipotecario utilizzato per fronteggiare la crisi di liquidità;
  • attivando diverse procedure di rateizzazione del debito fiscale, onorando i pagamenti convenuti, essendo poi stata costretta al ridimensionamento dell’impresa stante l’impossibilità di risollevarne le sorti.

Sul punto la suprema Corte di cassazione ha richiamato il consolidato principio in base a quale, in tema di reati fiscali omissivi, l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.

A parere degli ermellini la forza maggiore postula l’individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, così da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento”, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente.

In merito, la giurisprudenza di legittimità:

  • ha sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante;
  • nei reati omissivi, integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità e non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso.

Nel caso di specie, concludono gli ermellini, “al momento della commissione dei fatti per cui è intervenuta condanna (agosto 2010 e agosto 2011), la crisi d’impresa e di liquidità si trascinava già da tempo e la ricorrente… ha sostanzialmente scelto di destinare le risorse disponibili non già per il pagamento delle ritenute certificate (onorate soltanto in parte e rimaste inadempiute per ben tre anni consecutivi e per significativi importi) – ma per continuare a gestire l’azienda, pagando dipendenti e fornitori. In tal modo… la ricorrente ha continuato per anni ad operare con la sua società, nonostante la evidente mancanza di liquidità, sostanzialmente “finanziandosi” con le somme incamerate a titolo di sostituto d’imposta, sicché non può in alcun modo parlarsi di fatti commessi per forza maggiore”.

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