La deducibilità delle penali contrattuali
di Raffaele PellinoCon l’ordinanza n. 16561/2017, la Cassazione conferma la deducibilità dal reddito di impresa delle penali contrattuali per ritardata consegna ai clienti. Si tratta di un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza che riconosce la natura risarcitoria di detta penalità.
Nell’ambito di un rapporto contrattuale, si ricorda, le parti contraenti possono stabilire delle “clausole penali” al fine di far fronte ad eventuali violazione degli obblighi pattuiti. Nello specifico, la clausola penale viene definita dall’articolo 1382 del cod. civ. una pattuizione “…con cui le parti convengono preventivamente che, in caso di inadempimento, o di ritardo nell’adempimento uno dei contraenti è tenuto ad una determinata prestazione…” consistente, in genere, nel pagamento di una somma di denaro.
Sul punto, la prassi delle Entrate è stata chiara: le penali contrattuali sono deducibili dal reddito d’impresa. Nell’ambito della circolare 29/E/2011, in particolare, è stata affrontata la questione relativa all’individuazione del periodo di competenza in cui è possibile dedurre la penale contrattuale che un’impresa è tenuta a pagare ad un ente pubblico in seguito alla violazione degli obblighi contrattuali.
In tale ambito, l’Agenzia delle Entrate, nel ricordare che:
- il principio di competenza (articolo 109, comma 1, Tuir) presuppone il concorso dei seguenti requisiti:
- la certezza, quanto all’esistenza degli elementi reddituali, che sussiste solo quando si è verificato il relativo presupposto di fatto o di diritto;
- la loro obiettiva determinabilità, con riguardo all’ammontare dei medesimi, nel senso che l’elemento reddituale deve risultare da atti o documenti probatori che contengano le caratteristiche idonee e necessarie alla sua quantificazione.
Resta fermo che, ancorché sussistano detti requisiti, la deducibilità è subordinata alla corretta contabilizzazione del costo e, ovviamente, del relativo debito;
- per il principio di inerenza (articolo 109, comma 5, del Tuir) : “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”;
sottolinea che, verificata la sussistenza delle suddette condizioni, il costo relativo alla penale contrattuale può essere dedotto dal reddito dell’esercizio in cui si è verificato l’evento indicato nella clausola contrattuale. Tuttavia, se l’impresa presentasse, negli anni successivi, opposizione dinanzi all’autorità giudiziaria e ottenesse una pronuncia favorevole (con restituzione delle somme pagate), la stessa dovrà rilevare una sopravvenienza attiva.
Sul piano giurisprudenziale, in un primo intervento in materia, la Cassazione (sentenza n. 19702/2011) ha ribadito che “le spese e gli altri componenti negativi, di norma, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi od altri proventi che concorrono a formare il reddito”.
Ciò posto – continua la sentenza – la correlazione fra costo e reddito è senz’altro esclusa per le sanzioni pecuniarie irrogate per punire comportamenti illeciti del contribuente (quali: le infrazioni stradali, interessi su somme pagate a titolo di sanzione, per taluni costi connessi ad un condono edilizio nonché in caso di sanzioni irrogate dal Garante per la concorrenza sul mercato).
Per le penalità contrattuali stabilite dall’articolo 1382 cod. civ. per le ritardate consegne ai clienti, invece, si conferma la deducibilità dal reddito d’impresa in quanto “inerenti” all’attività dell’impresa.
In particolare, secondo la Cassazione la clausola penale “non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva, ma assolve la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria, tant’è che, se l’ammontare fissato nella clausola penale venga a configurare, secondo l’apprezzamento discrezionale del giudice, un abuso o uno sconfinamento dell’autonomia privata oltre determinati limiti di equilibrio contrattuale, può essere equamente ridotta”.
Con la recente ordinanza n. 16561/2017, la Cassazione conferma il citato orientamento.
Il caso di specie ha riguardato, in sintesi, il comportamento contabile tenuto da una società che, consegnando in ritardo alcune navi alla committente, era incorsa in penalità contrattuali.
L’Ufficio, con un avviso di accertamento, chiedeva il recupero a tassazione degli interessi di mora per ritardo nei pagamenti. Richiesta disattesa dalla CTR Marche ed oggetto poi di esame della Cassazione.
Alla tesi del giudice di appello secondo cui l’Ufficio avrebbe dovuto comunque tener conto, nell’accertamento, del costo rappresentato dalla penale contrattuale maturata per il ritardo nella consegna delle navi commissionate, in quanto anch’essa risultante da elementi “certi e precisi” desumibili dalla pattuizione contrattuale, l’Ufficio ricorrente contrapponeva la non deducibilità delle passività in esame, in quanto non ancora effettivamente sopportate.
Ebbene, la Corte afferma che il rilievo dell’Ufficio è infondato; questo postula l’imputazione delle penali secondo il criterio di “cassa”, mentre nessuna norma autorizza una deroga ai criteri d’imputazione per competenza fissati per tutti i componenti positivi e negativi del reddito d’impresa.
Per altro verso – continua la sentenza – non può dubitarsi della deducibilità delle penali in esame “ancorché non formalmente imputate al conto dei profitti e delle perdite relativo all’esercizio di competenza, trattandosi di ipotesi pienamente riconducibile alla previsione di cui all’ultimo periodo dell’art. 75, comma 4, t.u.i.r. (vigente ratione temporis), a mente del quale “le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e altri proventi, che pur non risultando imputati al conto dei profitti e delle perdite concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi“.
6 Ottobre 2017 a 10:16
Buongiorno,
La ringrazio dell’articolo molto chiaro e preciso.
Approfitto per chiederLe, per cortesia, un Suo parere relativo ad una fattispecie che ha qualche attinenza. Due privati stipulano un preliminare di vendita di un immobile prevedendo una caparra confirmatoria; successivamente tale caparra viene acquisita dal potenziale venditore per l’inadempimento dell’acquirente: Le chiedo se il potenziale venditore, in ogni caso, deve dichiarare ai fini IRPEF, come reddito diverso, l’importo della caparra acquisita, oppure non deve dichiarare nulla se l’immobile oggetto della vendita non realizzata, non avrebbe generato plusvalenza (ad es. perché era la casa di abitazione del venditore o altro fabbricato in proprietà da più di 5 anni)?
Grazie per l’attenzione prestatami.