La gestione dei cavalli dei soci da parte di un centro ippico è attività istituzionale
di Guido MartinelliMarta Saccaro
Il contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e le associazioni sportive dilettantistiche prosegue il suo corso e sono ora disponibili le prime sentenze di Commissioni tributarie di secondo grado. E’ il caso, ad esempio, della sentenza n. 2048/2014 del 13 marzo 2014 con la quale la settima sezione della Commissione Tributaria regionale di Milano si è pronunciata su alcune problematiche fiscali di un circolo ippico.
Due sono i temi di rilievo evidenziati nella pronuncia. Sotto un primo profilo, la sentenza completa i molti passi in avanti che la giurisprudenza tributaria ha compiuto criticando l’eccessivo formalismo adottato dall’Agenzia delle Entrate nella verifica degli statuti. Come si ricorderà, infatti, per consentire l’applicazione delle agevolazioni fiscali di cui all’art. 90 della L. n. 289/2002, dell’art. 148 del Tuir e dell’art. 4 del D.P.R. n. 633/1972, è necessario che lo statuto dell’associazione contenga specifiche clausole, volte a garantire che l’ente segua effettivamente principi di democraticità e di uguaglianza fra i soci.
Già in una precedente pronuncia (la 1312/22/14 del 20 febbraio 2014) sempre la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva stigmatizzato il comportamento dell’Agenzia delle Entrate che aveva contestato la non corrispondenza dello statuto sociale al dettato normativo senza poi verificare se l’attività svolta fosse nel concreto aderente ai principi normativi.
Nella sentenza in commento si sottolinea, invece, che le disposizioni del Tuir non impongono “l’introduzione negli statuti della identica espressione letterale usata dal legislatore, Ciò che rileva è che negli atti suddetti siano presenti disposizioni che perseguano lo stesso identico scopo”. Nella fattispecie in discussione la contestazione era relativa al fatto che, secondo l’Agenzia delle Entrate, nello statuto sociale non era stato pedissequamente riportato il contenuto del comma 8 dell’art. 148 del Tuir in merito all’intrasmissibilità della quota associativa. Nel corso del dibattimento si è invece dimostrato che, in merito alla previsione più sopra riportata, lo statuto dell’associazione è più ampio e anche più restrittivo del dettato normativo in quanto non contempla la possibilità di trasmissione in caso di morte.
Sbaglia quindi l’Agenzia delle Entrare a ricercare negli statuti degli enti associativi le identiche parole utilizzate dal legislatore: nella verifica dell’aderenza dello statuto al dato normativo è invece necessario verificare che la ratio delle singole clausole previste dal legislatore sia rispettata nella sostanza.
Ma la sentenza in commento va oltre e, ripercorrendo una strada già intrapresa anche dalla Corte di Cassazione, afferma che “la fruizione dei benefici deriva non solo dal dato formale dell’inserimento negli statuti delle clausole di cui si è detto ma anche dell’effettiva concreta osservanza delle regole statutarie escludenti l’esercizio di attività di natura commerciale”.
Sotto questo profilo viene contestata la tesi dell’Agenzia delle entrate secondo la quale per un circolo ippico la gestione dei cavalli dei soci a pagamento configurerebbe esercizio di attività commerciale. Con indubitabile sollievo di tutte le associazioni che si occupano di sport equestri (ma anche dei club nautici perché, mutatis mutandis, ciò che si dice in merito all’ospitalità dei cavalli si può sostenere anche per la gestione delle barche dei soci) i giudici di seconde cure affermano che “se lo scopo dell’associazione è la pratica e la diffusione degli sport equestri è consequenziale che la stessa comprenda nei suoi fini istituzionali anche la ospitalità e la cura dei cavalli di proprietà dei soci. E’ proprio questo, infatti, l’aspetto che consente il perseguimento di una delle finalità sociali che è quello della pratica dello sport equestre. Non si vede, infatti, diversamente come potrebbe conseguirsi tale finalità: non certo con il noleggio di cavalli di proprietà della associazione giacchè questo sì costituirebbe attività commerciale”.
Che quindi l’attività di ospitalità dei cavalli dei soci integri gli scopi statutari di un centro ippico è un principio che richiama un precedente offerto anche dalla Corte di Cassazione che ha riconosciuto la conformità alle finalità istituzionali di un circolo velico dell’attività di rimessaggio dei natanti fatta a beneficio dei soci (cfr. Cass., sentenza n. 4626 del 25 febbraio 2011).
La sentenza in commento chiude – anche qui in maniera condivisibile – affermando che affinché la natura non commerciale dell’attività non possa essere contestata è necessario che le quote richieste ai soci per il servizio di “gestione” dei cavalli non eccedano i costi sostenuti dal sodalizio (si qualifichino quindi come un mero rimborso di spese). In caso contrario, se, cioè dall’attività l’associazione ritraesse un margine di guadagno non sarebbe difficile sostenere l’esercizio di una vera e propria attività commerciale.