La leadership nello studio professionale
di Michele D’Agnolo
Il tempo del professionista può suddividersi in tempo dedicato a sovrintendere gli aspetti amministrativi e finanziari dello studio, sviluppare azioni commerciali, coltivare e intrattenere relazioni con i clienti, gestire e coordinare il personale, oltre che esercitare la professione. Tra tutte queste incombenze, cosa può fare veramente la differenza e permettere allo studio di distinguersi da altri studi che operano nel medesimo mercato? Fermo restando che ciascuna di queste attività è necessaria e deve essere presidiata con la dovuta accortezza, ciò che distingue uno studio di successo da uno studio che tutto sommato se la cava sono l’energia, l’entusiasmo, la motivazione, la determinazione, la dedizione e l’impegno che le persone mettono a disposizione dello studio. E da questo punto di vista, l’elemento trainante è la capacità di leadership del professionista titolare di studio, rispetto al proprio gruppo di collaboratori, la risorsa più preziosa di qualunque studio professionale.
La leadership ha come obiettivo l’innovazione, l’introduzione di un cambiamento all’interno di una organizzazione e questo avviene orientando i comportamenti delle persone, producendo in loro motivazione e ispirazione. Si tratta di qualcosa di più che gestire un gruppo di persone. Gestire le persone significa orientarne i comportamenti verso il raggiungimento di un (pre)determinato obiettivo. Esercitare leadership significa motivarle, soddisfacendo i loro bisogni fondamentali. Significa dare alle persone (ciascuna delle quali interpreta un ruolo, con funzioni, responsabilità, ambizioni, problemi, esperienze ed esigenze proprie) il proprio supporto nel risolvere i problemi, contenere i conflitti e le tensioni, aiutarle a organizzare il proprio tempo e le proprie risorse per raggiungere i propri obiettivi, raccordandoli con gli obiettivi di studio.
Gestire uno studio professionale non è, per certi aspetti, molto diverso dalla gestione di una squadra sportiva che può vincere solo se ciascun atleta riesce non solo a esprimere tutto il proprio potenziale ma soprattutto se è disposto a mettersi a disposizione della squadra di cui fa parte, accettando di condividere il successo con altri. E il supporto dell’allenatore, inutile dirlo, è fondamentale. Parallelamente, la direzione di uno studio professionale può dare un enorme valore aggiunto alla performance complessive dello studio attraverso l’esercizio della propria leadership, purché sia a servizio della squadra e non un esercizio di forza e di comando.
Ciascun elemento dello staff ha evidentemente i propri punti di forza (chi l’eccellenza tecnica, chi ottime capacità relazionali, chi ha doti di creatività, ecc.) e i propri punti di debolezza (pressapochismo tecnico, incapacità lavorare in gruppo, ecc.). Per far funzionare la squadra, per poter raggiungere obiettivi di efficacia e di efficienza complessivi è allora indispensabile potenziare i primi e minimizzare l’impatto dei secondi. È dall’individuo che bisogna allora partire: un buon leader deve saper riconoscere i talenti di ciascuno, saperlo collocare nella posizione più adeguata e trovare il modo migliore per motivarlo. Ciascuno risponderà in maniera diversa agli stimoli proposti: chi sarà più sensibile ad aspetti economici, chi alla crescita professionale, chi alla tempistica di lavoro, chi al riconoscimento pubblico, chi alla competizione. Ognuno ha il suo punto debole sul quale poter far leva per ottenerne maggior impegno, dedizione, entusiasmo, partecipazione. Bisogna allora sapersi intercettare le necessità dei singoli e agire a favore della squadra.
Naturalmente non basta celebrare un successo per motivare qualcuno. Non basta dirgli bravo al termine di un lavoro e al conseguimento di un risultato. La leadership richiede molta costanza, molta presenza. Si realizza attraverso l’approvazione, la gratificazione, l’attenzione, i riconoscimenti e gli apprezzamenti continui e costanti.
Non solo, il raggiungimento un obiettivo (individuale o di gruppo) assegnato non è un punto di arrivo. Per restare nella metafora dello sport, quando un atleta riesce a battere un record, che cosa fa un buon allenatore? Per prima cosa si complimenta, ne riconosce la bravura, condivide con lui l’entusiasmo per il traguardo raggiunto. Poi analizza insieme all’atleta le criticità riscontrate. Infine lo sprona a spostare un po’ più in là l’asticella, fornendogli tutto il sostegno e il supporto necessario. Una delle capacità richieste ad un buon leader è quella di riuscire a capire fin dove è opportuno spostare quell’asticella, in relazione alle effettive capacità della persona di migliorare le proprie performance. Solo un millimetro più in là e avremo dei collaboratori frustrati e demotivati. Forse per sempre.
Indurre un cambiamento nelle persone, nelle squadre, nei meccanismi di funzionamento di un’organizzazione è estremamente difficile. Tutti quanti noi preferiamo rimanere ancorati alle nostre abitudini, a ciò che conosciamo piuttosto che rischiare nel tentare di imparare un modo nuovo di fare la medesima cosa. Anche per orgoglio, se vogliamo. Per superare questa resistenza, un buon leader dovrebbe riuscire a costruire un piccolo progetto pilota attraverso il quale offrire alle persone la possibilità di sperimentare l’esperienza di un piccolo successo riconducibile ad un piccolo cambiamento. Una cosa del tipo “proviamo con questa piccola modifica e vediamo che cosa succede”. Un buon leader è quindi colui che non impone ma che riesce a instillare nelle persone una maggiore fiducia in ciò che (ancora) non conoscono, adottando un metodo socratico finalizzato a indurre le persone ad avvertire l’infondatezza delle proprie personali convinzioni e a indurre una disponibilità a sperimentare nuove vie. Non si tratta quindi di convincere l’altro della superiorità delle proprie convinzioni ma di attivare un meccanismo di messa in discussione delle proprie posizioni per considerare che altre strade possono essere praticate.
Un buon leader quindi costruisce una squadra. Se è vero che occorre potenziare il talento di ciascuno, creando per ognuno le condizioni più propizie, è altrettanto vero che questo lavoro deve essere fatto in funzione di un interesse di gruppo. Occorre quindi prestare molta attenzione a quelle situazioni in cui l’interesse del singolo non corrisponde con l’interesse del gruppo. Ad esempio, una prassi di lavoro che di per sé va benissimo ma che magari incide sull’efficienza dell’intero processo di realizzazione della prestazione professionale. In questo caso è bene attivarsi per indurre comportamenti che siano in linea con gli obiettivi della squadra. Ne deriva l’importanza della condivisione di un obiettivo comune. E non basta che questo obbiettivo esista, di per sé: deve essere comunicato, discusso, spiegato e condiviso.
Un buon leader non interviene a spot ma con costanza tiene monitorata l’attività dei singoli membri del gruppo, in modo tale da potere intervenire per tempo, laddove fosse necessario, per aggiustare tiro.
Va detto che essere un leader (efficace) non è per tutti. È un ruolo molto faticoso, molto stressante, si è sottoposti a continue pressioni. E le gratificazioni non così immediate, i risultati degli sforzi profusi non sono diretti come può essere per esempio l’acquisizione di un nuovo incarico, il cui effetto è tangibile, riscontrabile. Il successo di un leader non è un successo personale, deriva dalla capacità del gruppo di essere coeso, dinamico, performante.
Essere un buon leader implica innanzitutto comprendere che oggi lo staff dello studio non va considerato come strumento nelle mani del professionista che presiede lo studio, ma come parte integrante del progetto di crescita e sviluppo dello studio stesso. E in quest’ottica è necessario agire.