La natura degli enti nel codice del terzo settore
di Luca CaramaschiI criteri per definire la natura dei nuovi enti del terzo settore (gli Ets), sia essa commerciale o non commerciale, sono contenuti in un’unica disposizione normativa presente nel codice del terzo settore e, più precisamente, nell’articolo 79 D.Lgs. 117/2017.
Detto articolo, più volte modificato (sia dal decreto correttivo, il D.Lgs. 105/2018, che dal D.L. 119/2018 convertito nella L. 136/2018 e, infine, dalla Legge di bilancio 2019) ha manifestato sin dalla sua prima versione enormi difficoltà applicative che, tanto la relazione illustrativa al decreto originario, quanto le successive modifiche, non hanno contribuito a colmare.
Nella prima metà del mese di aprile 2019 il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (Cndcec) ha pubblicato un corposo documento dal titolo “Riforma del Terzo Settore: elementi professionali e criticità applicative” nel quale, tra i tanti argomenti affrontati, viene dedicato un ampio spazio alle riflessioni sul tema testé richiamato.
Un primo tema riguarda l’individuazione dei criteri e dei parametri secondo i quali le singole attività di interesse generale svolte dall’Ets (elencate dall’articolo 5 D.Lgs. 117/2017) non assumono carattere commerciale, rimanendo tali anche quando accreditate, contrattualizzate o convenzionate con pubbliche amministrazioni, con l’Unione europea, le Amministrazioni pubbliche straniere o altri organismi pubblici internazionali e tenuto conto degli apporti economici di tali enti, salvo gli importi di partecipazione alla spesa previsti dall’ordinamento (è il caso dei ticket sanitari posti a carico dell’utenza).
In particolare, il comma 2 del richiamato articolo 79 prevede che le predette attività sono svolte con modalità “non commerciali” se effettuate a titolo gratuito o dietro corrispettivi che non superano i “costi effettivi”, seppur con uno scostamento tollerato del 5%.
Ed è proprio in relazione a tale nozione di “costi effettivi” che il Cndcec aveva evidenziato come il legislatore, nel richiamare il confronto tra i corrispettivi del servizio reso o del bene ceduto con il costo effettivo, avrebbe dovuto considerare un concetto di “costo pieno”, comprensivo quindi dei costi diretti e indiretti di produzione, ma anche dell’imputazione della quota relativa ai costi generali dell’ente.
Nonostante nel decreto correttivo non sia stata accolta la proposta volta a sostituire detto termine con quello “costi pieni effettivi” (criterio noto anche come “full costing”), il Cndcec, nel recente documento, ritiene che tale significato sia quello più coerente da applicare.
Interessanti considerazioni vengono poi svolte in relazione alla già citata soglia di tolleranza del 5%, inserita nel comma 2-bis dell’articolo 79 ad opera dell’articolo 24-ter, comma 3, della legge di conversione del D.L. 119/2018 al fine di consentire un margine di flessibilità nella gestione degli ETS ed evitare che il conseguimento di eventuali utili al termine dell’esercizio, che peraltro devono essere costantemente reinvestiti negli scopi istituzionali, possa automaticamente comportare la qualifica dell’attività svolta come di natura commerciale, incidendo anche sulla natura dell’ente.
In base ad essa, le attività di interesse generale svolte dall’Ets si considerano non commerciali qualora i ricavi non superino di oltre il 5% i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi di imposta consecutivi; pertanto, laddove dovesse realizzarsi tale circostanza, a partire dal terzo periodo d’imposta l’Ets dovrà adeguarsi ai criteri di cui al comma 2 e, quindi, qualsiasi scostamento (anche minimo) rispetto ai parametri ivi previsti determina la qualifica dell’attività come commerciale.
Per converso, nel caso di margini positivi per due volte consecutive e nei limiti della richiamata percentuale di tolleranza, l’attività non perderà la sua natura non commerciale laddove nel successivo (e terzo) periodo d’imposta soddisfi il criterio base di non commercialità svolgendo la sua attività dietro corrispettivi non superiori ai costi effettivi.
Osserva in proposito il documento del Cndcec che la verifica di tale scostamento andrà eseguita al termine dell’esercizio (il 31 dicembre in caso di esercizio sociale coincidente con l’anno solare) e seguirà i criteri propri del regime di contabilizzazione e di bilancio adottati, quindi cassa o competenza.
Il superamento del 5% non determina automaticamente la perdita della qualifica di ETS non commerciale, stante che il superamento per più di due esercizi consecutivi del citato limite comporta unicamente l’inclusione dei proventi derivanti dalla attività di interesse generale come entrate commerciali.
Il citato documento, dopo aver precisato che il calcolo della soglia di tolleranza del 5% deve essere effettuato per ciascuna attività di interesse generale (e, quindi, non considerando la somma dei proventi derivanti dal complesso delle attività esercitate), fa l’esempio di un Ets che svolge due attività di interesse generale dalle quali consegue proventi pari a 60, di cui 35 dalla attività A e 20 dalla attività B, che risultano entrambi non commerciali in quanto rispettano i parametri sopra descritti, ma con la differenza che per l’attività B i proventi eccedono i costi effettivi seppur nella soglia di tolleranza del 5%.
L’Ets riceve, inoltre, erogazioni liberali pari a 3 e proventi da raccolta fondi occasionale pari a 2, oltre che conseguire proventi da attività “diverse” secondarie e strumentali (sempre commerciali) per 40.
Nello scenario descritto risulta che, ai fini tributari, l’Ets presenta natura non commerciale in quanto le entrate non commerciali (35+20+3+2) sono superiori a quelle commerciali (40).
Tuttavia, qualora la situazione presentata si dovesse verificare per più di due esercizi consecutivi, i proventi generati dall’attività B diverrebbero commerciali, con la conseguenza che l’Ets perderebbe lo status di Ets non commerciale in quanto i proventi commerciali (20+40) supererebbero quelli non commerciali (35+3+2).
L’ultima questione affrontata dal documento del Cndcec riguarda probabilmente il tema più delicato dell’intero articolo 79: il ruolo svolto dai proventi di cui comma 4 nell’ambito delle valutazioni riguardanti la natura degli Ets.
Detta disposizione prevede che non concorrono in ogni caso a formare il reddito degli Ets non commerciali:
a) i fondi pervenuti a seguito di raccolte pubbliche effettuate “occasionalmente”, anche mediante offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione;
b) i contributi e gli apporti da amministrazioni pubbliche nazionali e internazionali per lo svolgimento, anche convenzionato e in regime di accreditamento, delle attività di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 79 D.Lgs. 117/2017.
Con riferimento al ruolo che le due tipologie di entrata debbono rivestire ai fini della verifica della natura dell’ente si sono contrapposte in dottrina due correnti di pensiero, in considerazione del fatto che
- il comma 5-bis dell’articolo 79 le ricomprende tra le entrate derivanti da attività non commerciali ai fini della loro contrapposizione con le entrate commerciali nell’ambito della verifica circa la natura dell’Ets
- mentre nell’incipit del comma 4 si precisa che dette entrate non concorrono a formare il reddito se il soggetto che le consegue ha natura di Ets non commerciale.
Si pone quindi la questione del noto paradosso “è nato prima l’uovo o la gallina?”. Se queste entrate vanno considerate per valutare se l’Ets ha natura commerciale o meno come possono essere preventivamente giudicate non commerciali sono se conseguite da un ETS non commerciale?
Sul punto il documento del Cndcec sposa le condivisibili affermazioni contenute nella relazione illustrativa al decreto secondo cui “… le entrate derivanti da raccolte fondi e da contributi pubblici erogati a favore di Ets non commerciali concorrono, come proventi non commerciali, ai calcoli da eseguire per determinare la natura fiscale dell’ente”.