L’Agenzia delle entrate lo scorso 13 novembre, avanti la commissione parlamentare che ha in corso l’esame del progetto di legge recante la delega al Governo per la riforma del Terzo settore, ha svolto una serie di considerazioni per una futura disciplina fiscale del settore degli enti non commerciali del tutto condivisibili e che possono costituire una interessante base di valutazione per la nuova riforma organica dello sport preannunciata dal Presidente del Coni. Per convincersi che tale riforma sia opportuna basti pensare che la legge sul professionismo, la L. 91/1981, ha già compiuto 33 anni e l’unica norma organica sul dilettantismo, l’art. 90 della L. 289/2002 va per i 12.
L’Agenzia ha affermato che
la fiscalità di vantaggio riconosciuta agli enti: “è imperniata quasi totalmente intorno alla rilevanza della loro non lucratività oggettiva, piuttosto che intorno a quella soggettiva
. Tale atteggiamento trova le sue ragioni d’essere in una visione storica ed ideologica ben precisa che oggi non sembra collimare né con la realtà del terzo settore né con la sua funzione all’interno del sistema produttivo del Paese”.
Prosegue affermando, appunto, che
le entrate dei soggetti in questione derivano per il 47,3% dallo svolgimento di attività commerciali (e la sensazione è che, per le società sportive, tale percentuale sia ben più alta) e che ”
la realtà ha ampiamente superato la norma civilistica sdoganando definitivamente l’idea che gli enti non profit si qualifichino per la finalità non lucrativa e non per l’attività svolta che può anche essere commerciale”.
La considerazione che
si debba ripensare l’attuale regime di tassazione del Terzo settore alla luce delle finalità di utilità sociale, della non lucratività soggettiva e dell’impatto sociale è auspicio che va proprio nella direzione in cui necessita in particolar modo vada una riforma dello sport in cui la gestione “commerciale” è assolutamente prevalente, come dimostra lo stesso art. 149 del Tuir laddove esonera le sportive dall’applicazione dei parametri di perdita dello
status di ente non commerciale.
In un quadro
de iure condendo il primo tema da affrontare non potrà che partire dalla
definizione di attività sportiva dilettantistica e di quali siano i suoi confini.
Sappiamo che l’attuale situazione, che la identifica per differenza da quella individuata come professionistica dalla L. 91/1981, include
in un unico contenitore normativo realtà socio economiche diversissime, che vanno dal tennista che vince un importante torneo internazionale al “palleggiatore” della domenica, dallo sciatore che vince la coppa del mondo a quello che scende a spazzaneve.
Se questo, da un lato, rappresenta un aspetto della criticità dell’attuale disciplina, l’altro aspetto delicato è che tutto sta diventando “sport”.
Nella corsa all’accaparramento dei benefici fiscali (ricordo che quelli sul trattamento dei compensi sono appannaggio esclusivo delle attività sportive e di poche altre eccezioni in campo di bande, cori e filodrammatiche) a cui si unisce la volontà di alcune realtà nazionali sportive di puntare essenzialmente ed in maniera indiscriminata ad incrementare il proprio numero di tesserati, qualsiasi “attività” organizzata, si faccia con il corpo o con la mente, diventa “sport”.
Un ulteriore aspetto da esaminiare è il
ruolo centrale che debba avere la società sportiva.
Tuttavia, mi chiedo, per come è attualmente disciplinata sotto il profilo normativo, tale normativa è idonea a regolamentare il momento sportivo che stiamo vivendo?
Già l’esame del comma 17 dell’art. 90, laddove prevede sia la possibilità di costituire associazioni sportive secondo la disciplina del primo libro del codice civile sia società sportive di capitale basate sul disposto del quinto libro, ma entrambe accomunate dal minimo comune denominatore dell’assenza dello scopo di lucro, evidenzia il
primo equivoco da sciogliere.
Se il legislatore dell’epoca aveva differenziato le associazioni dalle società, individuando nelle prime un contenitore per attività con finalità etico – sociali e nel secondo una fattispecie più adatta invece alle finalità economiche e/o di profitto, è, credo, di palese evidenza che
il volerli accomunare in una unica matrice, senza interventi correttivi, così come è avvenuto, diventa un tentativo che non può fare a meno di far emergere palesi criticità.
Appare facile pensare che moderne associazioni sportive, che possono raggiungere le centinaia se non le migliaia di associati, ben difficilmente potranno essere gestite con le finalità “associative” tipiche, la cui assenza è sempre oggetto di rilievo in sede di accertamento da parte della Agenzia delle entrate.
Lo stesso si può dire delle società sportive di capitali, le quali, per poter godere di tutte le agevolazioni fiscali previste per lo sport, devono prevedere il voto per testa e non per quote di possesso e la incedibilità delle stesse, due dei presupposti che costituiscono elementi essenziali della loro natura, per come li aveva immaginati il legislatore del codice civile.
E veniamo all’aspetto fiscale: come dichiarato dalla stessa Agenzia, si dovrà spostare l’attenzione dalle finalità oggettive dell’attività (così come sono oggi stabilite dall’art. 73 del Tuir, ossia esercizio o meno di una attività commerciale) a quelle soggettive (distribuzione o non distribuzione di utili).
Solo l’esistenza o meno del lucro soggettivo potrà dare diritto o meno al godimento delle agevolazioni fiscali previste per il mondo dello sport, indipendentemente dall’attività esercitata.
Appare anacronistico che l’art. 2 del D. Lgs. 155/2006, sull’impresa sociale, non consideri
“beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati” nell’ambito dello sport.
Rivista la disciplina civilistica e fiscale dei soggetti che “fanno sport dilettantistico”, sia sotto il profilo civilistico che fiscale, non resta, ultima ma non ultima, quella che riguarda gli aspetti “lavoristici”.
Non possiamo ritenere che lo sport possa garantire sbocchi occupazionali ai giovani, laureare migliaia di giovani in scienze motorie, fare master in management sportivo e prevedere, poi,
che debbano andare a fare i “dilettanti”.
Il problema, oggettivo,
che il sistema sport non genera le risorse necessarie ad un regolare inquadramento di chi opera nel settore, non può più essere la scusa per non dare tutela a questi giovani.