La presunzione di esterovestizione delle società
di Nicola FasanoOramai da diversi anni nel nostro ordinamento è stata introdotta (art. 35, co. 13, D.L. n. 223/2006 che ha integrato l’art. 73, Tuir, inserendo i co. 5-bis e 5-ter) una presunzione di residenza in Italia per le c.d. “subholding”, ma non solo.
La norma, evidentemente ha lo scopo di colpire in primo luogo lo schema di partecipazioni a catena secondo cui a monte e a valle ci sono due società italiane e in mezzo una subholding estera che da un lato è controllata, anche indirettamente, da soggetti residenti in Italia e, dall’altro, detiene a sua volta una partecipazione di controllo in società italiana. Analoga presunzione di residenza in Italia opera se la società estera che controlla quella italiana è amministrata da un Consiglio di amministrazione composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
La disposizione, inoltre, prevede che il suddetto rapporto di controllo è valutato alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di gestione del soggetto estero controllato. Con riferimento alle persone fisiche, per valutare il requisito del controllo, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari di cui all’art. 5, co. 5, Tuir ossia il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado.
Resta ferma, in ogni caso, la prova contraria rispetto alla presunzione in esame che, in concreto dovrà essere fornita dimostrando, in particolare, che le decisioni sono effettivamente prese all’estero, e che gli amministratori, se del caso, sono fiscalmente residenti all’estero. La portata della presunzione, peraltro, tende a scemare in presenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni che risolve eventuali conflitti di residenza fra due Paesi sulla base del criterio della “sede di direzione effettiva” individuato nel Commentario OCSE all’art. 4 del Modello di Convenzione tenendo conto di diversi fattori, fra i quali quello dove si tengono le riunioni di direzione dell’ente, il luogo in cui i vertici societari svolgono la loro attività, il posto in cui è svolta l’attività di gestione quotidiana dell’ente (day to day management).
Nel 2009, peraltro, l’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC) ha presentato alla Commissione Europea una formale denuncia di illegittimità della normativa italiana in tema di esterovestizione per violazione dei principi comunitari di libero stabilimento, proporzionalità e non discriminazione.
L’Italia, tuttavia, ha risposto evidenziando che la presunzione non esonera il verificatore dal provare in concreto l’effettiva esterovestizione, costituendo solo un «punto di partenza per una verifica più ampia, da effettuarsi in contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria».
Ciò che è sempre sconsigliabile, in ogni caso, è l’invio di corrispondenza (fax, mail, ecc.) dall’Italia con riferimento alla gestione e alla attività amministrativa, commerciale e finanziaria, della società estera in quanto, come noto le contestazioni di esterovestizione, a prescindere dall’applicazione della presunzione, nascono molto spesso a seguito di un accesso o verifica nei confronti della società italiana nel cui bilancio è iscritta la partecipazione estera da cui consegue l’acquisizione della corrispondenza e/o della eventuale contrattualistica in essere con la società estera, i cui stralci ritenuti più significativi vengono citati nel Pvc dando luogo a contestazioni che, quasi inevitabilmente, portano ad accertamenti induttivi, mancando una contabilità di riferimento, con rilievi molto pesanti ai fini amministrativi e conseguenze penaltributarie in capo al soggetto ritenuto amministratore.