La produzione di nuovi documenti nel processo tributario d’appello
di Luigi FerrajoliNell’ambito del processo tributario di appello è sempre ammessa la produzione di nuovi documenti secondo quanto dispone l’articolo 58 D.Lgs. 546/1992 che, al comma 2, fa espressamente “salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti”.
Poiché l’articolo 1, comma 2, del medesimo decreto prevede che nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria prevalga quest’ultima, non vi è applicazione alcuna della preclusione di cui all’articolo 345, comma 3, c.p.c., essendo la materia regolata dal citato articolo 58, comma 2, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado (Cass. Civ., Sez. V., n. 27774/2017).
Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’unica condizione alla produzione di nuovi documenti è che tale attività processuale venga esercitata entro il termine previsto dall’articolo 32, comma 1, D.Lgs. 546/1992, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza, dovendo peraltro tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi previsto a pena di decadenza, rilevabile d’ufficio dal giudice (Cass. Civ., Sez. V., n. 29087/2018).
L’inosservanza di detto termine è da ritenersi tuttavia sanata ove il documento sia stato già depositato, benché irritualmente, nel giudizio di primo grado, poiché nel processo tributario i fascicoli di parte restano inseriti in modo definitivo nel fascicolo d’ufficio sino al passaggio in giudicato della sentenza, senza che le parti abbiano la possibilità di ritirarli, con la conseguenza che la documentazione ivi prodotta è acquisita automaticamente e “ritualmente” nel giudizio di impugnazione (Cass. Civ., Sez. V, n. 5429/2019).
In ragione di tali assunti, la produzione di nuovi documenti in appello ai sensi del menzionato articolo 58, comma 2, D.Lgs. 546/1992 “opera anche nell’ipotesi di deposito in sede di gravame dell’atto impositivo notificato, trattandosi di mera difesa, volta a contrastare le ragioni poste a fondamento del ricorso originario, e non di eccezione in senso stretto, per la quale opera la preclusione di cui al detto decreto, art. 57” (Cass. Civ., Sez. V, n. 8313/2018).
Si consideri oltretutto che, secondo quanto confermato dalla Suprema Corte con la recente sentenza n. 14567/2021 (in tal senso, anche Cass. Civ., Sez. V, n. 12008/2011, n. 14020/2007 e ordinanza n. 10567/2012), il predetto principio opera anche in relazione alla produzione per la prima volta in sede di appello dell’atto impositivo (e di cui era contestata dal contribuente l’avvenuta notifica), in quanto essa costituisce una mera difesa che non soggiace alle preclusioni di cui all’articolo 57, norma che vieta la proposizione di domande ed eccezioni nuove (salvo quelle rilevabili d’ufficio).
Il richiamato orientamento della Cassazione è stato peraltro avallato dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 199/2017, ha respinto la questione di legittimità sollevata sul richiamato articolo 58, comma 2, D.Lgs. 546/1992 per asserita violazione dell’articolo 24 Cost..
I giudici costituzionali hanno difatti ritenuto ragionevole la previsione di un’attività probatoria esperita in appello poiché il regime delle preclusioni in tale frangente (come la produzione di un documento) mira a scongiurare che i tempi della sua effettuazione siano procrastinati per prolungare il giudizio, mentre la previsione della producibilità in secondo grado costituisce un temperamento disposto dal legislatore sulla base di una scelta discrezionale che, come tale, è insindacabile.
Ciò in quanto non esiste un principio costituzionale di uniformità tra i diversi tipi di processo, e, in particolare, tra il processo tributario e quello civile, né tantomeno vi è disparità di trattamento tra le parti del giudizio, atteso che la facoltà di produrre per la prima volta in appello documenti già posseduti nel grado anteriore è riconosciuta ad entrambe le parti.
Quanto stabilito dalla Corte Cost. permette di ritenere che nella facoltà prevista dall’articolo 58, comma 2, D.Lgs. 546/1992 non possa essere ravvisato alcun danno nei confronti della parte diligente talmente grave da rendere illegittima sul piano costituzionale la disposizione di legge.
Ad ogni modo, la parte più diligente deve ritenersi tutelata se si considera che, in tema di determinazione delle spese di giudizio (ai sensi dell’articolo 15 D.Lgs. 546/1992, che ricomprende le spese cagionate dalla trasgressione del dovere di lealtà ex articolo 88 c.p.c. – in tal senso, Cass. Civ., Sez. V, n. 8927/2018), il giudice tributario può valutare il comportamento tenuto dalla parte nel giudizio di primo grado, soprattutto se la produzione di documenti in appello dovesse risultare frutto di una negligenza o di un calcolo di convenienza processuale o difensiva.