La prova in ordine all’inerenza dei costi rimane a carico del contribuente
di Luciano SorgatoLa Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 29211 dello scorso 12.11.2024, è tornata a pronunciarsi sulla questione relativa all’onere della prova in ordine all’inerenza dei costi e ribadendo il vecchio orientamento anteriforma, continua ad addossare al contribuente l’obbligo di dimostrare il nesso causale dei costi con l’esercizio dell’impresa.
Così testualmente il giudice di Cassazione: “In ordine alla deduzione dei costi ai fini dell’imposizione reddituale la Cassazione è intervenuta più volte, confermando che ai fini della detrazione di un costo e dell’IVA relativa, la prova dell’inerenza del medesimo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato. In definitiva, il contribuente che intenda detrarre un costo, non può esimersi dal provarne l’inerenza”.
La sentenza non appare condivisibile, in quanto insiste a non considerare in alcun modo l’innovato rapporto processuale in ordine all’onere della prova, come introdotto dal comma 5bis, dell’articolo 7, D.Lgs. 546/1992.
Allo scopo di verificare l’autentica coerenza della sentenza in commento con l’innovata dialettica processuale sulla prova Finanza – Contribuente, appare utile dipartire dal confronto delle versioni letterali delle due norme: l’articolo 2697, cod. civ. e il citato nuovo articolo 7, comma 5bis, D.Lgs. 546/1992, entrambe relative all’onere processuale della prova:
- articolo 2697 cod. civ.: “Chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
- articolo 7, comma 5bis, D.Lgs 546/1992: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.
Dal confronto delle due norme appare la coincidenza dei fondamenti causali della prova, diversi solo nella rappresentazione letterale, ma non certo nei loro paradigmi di principio.
Il nuovo comma 5bis prospetta solo un inventario più analitico delle attitudini della prova, prima letteralmente compresse nel sintetico riferimento al fondamento costitutivo del diritto che nel processo si vuole far valere. Il quid novi che si rende, però, chiaramente intravedibile nella novella disciplinare della prova, è quello rappresentato dall’esigenza avvertita dal legislatore di esternare con chiarezza le prerogative della prova, allo scopo di eliminare ogni possibile forma di privilegio a vantaggio della Finanza che, si sottolinea, è la parte attrice in senso sostanziale nel processo tributario.
Provare i fatti alla base del fondamento costitutivo di un diritto è, all’evidenza, sinonimo di una vis dimostrativa del tutto ricalcante le attitudini ora disaggregate della “fondatezza”, “non contraddittorietà” e, soprattutto, “autosufficienza” della prova. Se, quindi, il legislatore ha ritenuto, a parità degli elementi di principio (che sono alla base del governo della prova) di ricorrere alla precisazione che qualora la prova non sia sufficiente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa erariale, l’atto impositivo dev’essere annullato, il motivo appare essere solo quello di voler incapsulare, in una conformazione autenticamente imparziale, la contrapposizione processuale Finanza – Contribuente. Il motivo fondante la diversa struttura letterale della norma non può non essere intravisto proprio nello scopo di interdire franchigie probatorie a vantaggio della Finanza ed inversioni di oneri di prova a carico del contribuente che, sebbene già ripudiate dalla precedente versione letterale dell’articolo 2697 cod. civ., hanno potuto prevalere a causa del sintetico linguaggio giuridico usato in tale ultima norma e per l’inclusione in esso dei cd fatti modificativi o estintivi a carico della parte resistente ora abrogati. Trattasi di una diposizione che, seppure connotabile come processuale, appare persino prospettare più coesione con i principi dello Statuto del Contribuente.
In base al nuovo assetto legale della dialettica sulla prova nel processo tributario, l’atto impositivo dev’essere, quindi e senza eccezioni, annullato se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva.
E tale disposizione processuale, vale anche per l’inerenza dei costi, dal momento che l’unica eccezione che mantiene l’onere della prova a carico del contribuente è quella prevista in materia di rimborsi d’imposta.
La sentenza in scrutinio si raccorda a quell’orientamento giurisprudenziale che riteneva di poter procedere attraverso un processo di scomposizione della fattispecie imponibile nei singoli elementi positivi e negativi, allo scopo di imputare al contribuente l’onere della prova in ordine all’esistenza delle prerogative fiscali di questi ultimi. Tale sorta di scorporo in dottrina veniva già nel passato avversata in quanto con esso veniva artificiosamente manipolato, da parte della Finanza, il fatto da accertare. Si sottolineava come, nel caso del reddito d’impresa, la fattispecie impositiva era rappresentata dal possesso di un maggior reddito e la prova doveva vertere sull’intera realizzazione del presupposto, senza alcun frazionamento del medesimo. Ora è indubitabile che proprio la portata della novella processuale rafforzi tale principio e ponga l’onere della prova alla base delle rettifiche operate, rispetto alle enunciazioni di fatto esposte in dichiarazione dal contribuente ad esclusivo carico della Finanza, con l’interdizione del giudice di stabilire motu proprio un qualsiasi criterio di riparto della prova da cui derivi un’immunità di aggravio a favore della Finanza.
La sentenza in commento devia in chiaro senso antigiuridico dall’orientamento dottrinale che si è formato sull’onere della prova senza frattura di indirizzo interpretativo. Il motivo appare essere quello di sempre: l’Amministrazione finanziaria va in ogni modo agevolata nel suo agire in nome di un interesse fiscale che, però, così concepito, riesce solo a minare la costituzionale democrazia del rapporto d’imposta.