La rilevanza penale tributaria dei proventi illeciti
di Marco BargagliLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 37107 depositata il 26 luglio 2017, ha affrontato il tema della rilevanza penale della tassazione dei proventi illeciti.
Come noto, la normativa sostanziale di riferimento sanziona, ai fini penali-tributari, le ipotesi di infedele e/o omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
In particolare, nel primo caso (infedele presentazione della dichiarazione), ai sensi dell’articolo 4 del D.Lgs. 74/2000, viene punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:
- l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro centocinquantamila;
- l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, risulta superiore a euro tre milioni.
Dopo la riforma introdotta dal D.Lgs. 158/2015, si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio, ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.
In buona sostanza, il legislatore ha previsto l’irrilevanza penale, al ricorrere di determinate condizioni, delle c.d. valutazioni estimative (es. in applicazione della normativa sul transfer price), ossia della violazione dei principi generali previsti per la deduzione, dal reddito di impresa, dei costi sostenuti ex articolo 109 del D.P.R. 917/1986 (inerenza, competenza, certezza ed obiettiva determinabilità).
Con riferimento alla seconda ipotesi (omessa dichiarazione), l’articolo 5 del D.Lgs. 74/2000 sanziona ai fini penali, con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, ad euro cinquantamila.
Ciò posto, gli ermellini si sono pronunciati sulla rilevanza penale derivante dalla percezione di redditi da parte di un amministratore di condominio, al quale era stato contestato il reato di omessa dichiarazione ex articolo 5 del D.Lgs. 74/2000, con contestuale sequestro di beni mobili ed immobili.
Il contribuente presentava ricorso al giudice penale, sulla base delle seguenti argomentazioni logico- giuridiche:
- violazione del principio giuridico del “nemo tenetur se detergere” in base al quale, nel processo penale, l’indagato non può auto incriminarsi;
- la fattispecie penale contestata risulta impossibile, tenuto conto che i modelli di dichiarazione non consentono l’inserimento delle somme percepite derivanti da attività illecite.
Preso atto delle osservazioni difensive, la suprema Corte ha respinto il ricorso, ponendo in evidenza che il possesso di redditi occultati al Fisco può, in linea di principio, costituire reato.
Inoltre, la circostanza che l’autodenuncia possa violare teoricamente il principio nemo tenetur se detegere, è sicuramente recessiva rispetto al più importante obbligo di concorrere alle spese pubbliche (ex articolo 53 della Costituzione), dichiarando tutti i redditi prodotti (effettivi) nella piena espressione della capacità contributiva.
Infine, il giudice di legittimità ha osservato che:
- la ormai incontestata e riconosciuta normativamente tassabilità dei proventi illeciti, anche delittuosi, comporta il necessario superamento di ogni remora, anche in ordine alla dichiarazione, essendo connaturale al possesso di un reddito tassabile, il relativo obbligo di dichiarazione (cfr. Corte di cassazione sezione 5 civile, sentenza n. 20032 datata 30 settembre 2011);
- non sussiste la violazione dell’articolo 6 della “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” la quale, nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo, opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato, stante la sua “ratio” consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 12697 del 20 novembre 2014).