La rilevanza tributaria dei finanziamenti infruttiferi ai fini del TP
di Marco BargagliLa sentenza n. 7493 del 15 aprile 2016 della Corte di Cassazione costituisce un interessante spunto di riflessione utile ad alimentare il dibattito circa la rilevanza, ai fini del transfer pricing, delle operazioni di finanziamento infruttifero poste in essere tra imprese appartenenti allo stesso Gruppo.
Tale arresto giurisprudenziale si pone in contrasto con il diverso orientamento espresso sempre dalla suprema Corte che, con la sentenza n. 15005 del 17 luglio 2015, aveva ritenuto inapplicabile la disciplina sui prezzi di trasferimento infragruppo ai finanziamenti infragruppo che non generavano interessi passivi.
Il differente approccio ermeneutico genera quindi incertezza tra gli addetti ai lavori, proprio su un argomento di centrale importanza strategica, commerciale e fiscale che, generalmente, coinvolge tutti i gruppi multinazionali.
Nello specifico, le argomentazioni logico-giuridiche espresse più di recente da parte del giudice di legittimità consentono di affermare che l’Amministrazione finanziaria potrà valutare la congruità delle operazioni poste in essere anche nell’ambito di prestiti infruttiferi concessi nei confronti di imprese consociate, a prescindere dall’autonomia negoziale espressa dalle parti ivi comprese le pattuizioni contrattuali stabilite dai soggetti economici interessati dalle transazioni.
In particolare, la questione su cui si sono pronunciati gli ermellini, riguardava un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per il recupero a tassazione di interessi attivi a carico di una società di capitali italiana, nei rapporti economici e commerciali di natura finanziaria intercorsi con la società controllata estera, residente in Lussemburgo.
Sul punto, i verificatori ritenevano che i rapporti riconducibili tra i due soggetti economici si erano concretizzati nella concessione di un finanziamento produttivo di interessi, rientrante nella disciplina sui prezzi di trasferimento, nonostante che la società italiana lo avesse qualificato come versamento infruttifero, effettuato a titolo di “conto futuro aumento di capitale”.
La vexata quaestio riguardava proprio la corretta qualificazione delle operazioni poste in essere e, in particolare, se: “nel caso di finanziamenti erogati da un’impresa stabilita nel territorio dello Stato a società da essa controllate, non residente nel territorio dello Stato, le componenti di reddito derivanti dall’operazione, per l’impresa che ha effettuato il finanziamento, devono essere valutate – quale che siano le condizioni pattuite dalle parti – assumendo quale corrispettivo il valore normale del servizio prestato e se, conseguentemente, in presenza di versamenti di denaro tra i suddetti soggetti, il giudice di merito, il quale rilevi che tali rimesse siano comunque improduttive di interessi, nondimeno non possa considerare assorbita la questione della qualificazione dei negozi nei quali hanno titolo i versamenti medesimi (se cioè si tratti di somme date a mutuo ovvero in conto di futuri aumenti di capitali)”.
In merito, la Corte di Cassazione ha rilevato che la normativa sui prezzi di trasferimento non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing, relativo allo spostamento di base imponibile (c.d. travaso di utili) a seguito di operazioni intercorse tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti.
Ciò posto, secondo il giudice tributario, a prescindere dalla volontà negoziale espressa formalmente dalle parti in causa, è rilevante accertare la reale sostanza economica dell’operazione e confrontarla con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e valutarne quindi la conformità a queste.
In conclusione, la suprema Corte rileva che:
- la qualificazione di infruttuosità del finanziamento eventualmente operata dalle parti (sulle quali incombe il relativo onere probatorio, dato il carattere normalmente oneroso del contratto di mutuo, ai sensi dell’articolo 1815 cod. civ.) si rivela ininfluente, essendo di per sé inidonea ad escludere l’applicazione del criterio di valutazione in base al valore normale;
- sarebbe chiaramente irragionevole e fonte di condotte agevolmente dirette a sottrarsi alla normativa TP, ritenere che l’Amministrazione possa esercitare tale potere di rettifica in caso di operazioni con corrispettivo inferiore a quello normale ed anche irrisorio, mentre ciò le sia precluso nell’ipotesi di contratti a titolo gratuito.
In definitiva, l’autorevole precedente giurisprudenziale costituisce un significativo “alert” per quelle imprese ad ampio respiro internazionale che, nella prassi commerciale, concedono alle proprie consociate finanziamenti infruttiferi, anche se destinati ad eventuali futuri aumenti in conto capitale.