La rinuncia al credito non determina plusvalenze tassabili
di Marco BargagliLa suprema Corte di Cassazione, nella sentenza n. 1520/2017 (depositata in data 20 gennaio 2017), si è recentemente pronunciata con riguardo ai profili elusivi della rinuncia (da parte del socio di riferimento), del credito vantato nei confronti della società, con conseguente omessa tassazione della sopravvenienza attiva che ne sarebbe derivata.
La vicenda trae origine dall’analisi di una più ampia operazione di riorganizzazione aziendale nell’ambito della quale la società capogruppo aveva provveduto a ricapitalizzare la società controllata, sulla base delle seguenti direttrici:
- preliminare acquisto dei crediti, che vari istituti di credito avevano maturato nei confronti della stessa società controllata;
- successiva rinuncia ai crediti.
Le operazioni sopra descritte, sotto il profilo contabile, avevano avuto unicamente natura patrimoniale rilevando in bilancio l’estinzione delle partite creditorie e debitorie. Di contro, sotto il profilo fiscale, l’operazione in rassegna non aveva comportato l’emersione di componenti positivi di reddito (rectius sopravvenienze attive fiscalmente rilevanti).
L’Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione la sopravvenienza attiva rappresentata dall’estinzione dei debiti della società per effetto di rinuncia parziale da parte della controllante. In particolare, si trattava di crediti originariamente vantati dalle banche nei confronti della società controllata, che erano stati acquistati dalla casa madre per un prezzo inferiore al valore nominale ai quali, successivamente, la stessa società aveva parzialmente rinunciato. L’ufficio riteneva che detta operazione rispondesse al solo fine di eludere l’imposta che altrimenti sarebbe stata dovuta, considerando la corrispondente estinzione del debito quale sopravvenienza attiva tassabile ex articolo 55, comma 1, del Tuir. Infatti, sulla base dell’iter logico – giuridico seguito dall’ufficio, qualora la rinuncia del credito fosse stata effettuata direttamente dalle banche creditrici a favore della società controllata, la stessa avrebbe comportato l’emersione di una sopravvenienza attiva soggetta a tassazione.
Il contribuente si era opposto alla tesi dell’ufficio, invocando le valide ragioni economiche delle operazioni poste in essere. Nello specifico, la rinuncia al credito da parte della casa madre era stata effettuata in seguito a pregressi accordi presi con le banche, nell’ambito di un importante processo di ristrutturazione del debito, che avrebbe consentito di superare la contingente crisi aziendale senza incorrere in gravose procedure concorsuali.
Tutta la vicenda deve essere valutata sulla base delle disposizioni elusive in precedenza contenute nell’articolo 37-bis del D.P.R. 600/1973 che, come noto, è stato abrogato per effetto della nuova disciplina in tema di elusione fiscale introdotta con l’articolo 10-bis della L. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale attualmente configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce conseguentemente gli eventuali vantaggi fiscali, determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto delle operazioni poste in essere.
Ciò posto, la suprema Corte di Cassazione ha accolto la tesi del contribuente individuando conseguentemente le valide ragioni economiche delle operazioni realizzate come in precedenza descritte. Nello specifico gli ermellini rilevano che i giudici di appello, nel seguire la ricostruzione indiziaria contenuta nel processo verbale di constatazione, hanno omesso di motivare sufficientemente, anche eventualmente esperendo i pertinenti accertamenti e valutazioni, l’inesistenza di ragioni economiche – diverse dal realizzato risparmio fiscale – per porre in essere un’operazione di per sé non esclusa dall’ordinamento, “se non se ed in quanto determinata unicamente dal perseguimento di un vantaggio fiscale” . Sulla base delle autorevoli posizioni espresse da parte del giudice di legittimità, possiamo affermare che l’Amministrazione finanziaria non può disconoscere, in linea di principio, l’irrilevanza fiscale della sopravvenienza attiva conseguita dalla società (derivante dalla rinuncia di un credito), unicamente perché lo stesso è stato in precedenza acquistato presso una banca creditrice della medesima società controllata. Anzi, qualora le operazioni vengono poste in essere nell’ambito di un reale programma di ristrutturazione aziendale, occorre adeguatamente motivare l’assenza di valide ragioni economiche, dimostrando che gli atti posti in essere hanno l’unica finalità di conseguire un indebito risparmio di imposta, in violazione alle norme previste in tema di elusione fiscale ed abuso del diritto.