La valutazione della congruità delle spese sostenute dal professionista
di Marco BargagliAi fini fiscali, la deducibilità dei costi e delle spese sostenute nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo è contemplata nell’articolo 54 Tuir.
Per espressa disposizione normativa, il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione.
Inoltre, i compensi percepiti devono essere computati al netto dei contributi previdenziali e assistenziali stabiliti dalla Legge a carico del soggetto che li corrisponde.
In buona sostanza, i costi e le spese sostenute nell’esercizio di lavoro autonomo possono essere dedotti dal professionista se rispondono alle seguenti condizioni:
- effettività della spesa, dimostrata dall’esibizione di un valido documento fiscale (es. fattura, ricevuta fiscale, scontrino fiscale) che dimostri il sostenimento dell’onere a cui corrisponde una specifica “uscita finanziaria”;
- inerenza rispetto all’attività professionale tenuto conto che, per costante giurisprudenza, i componenti negativi di reddito devono avere attinenza con l’attività svolta.
In particolare, affinché una spesa possa essere considerata inerente è necessario che siano evidenti le ragioni del suo sostenimento, avuto riguardo all’attività esercitata, alle dimensioni e alle specifiche esigenze (cfr. Manuale in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza volume III – parte V – capitolo 4 “Il riscontro analitico – normativo dell’attività di lavoro autonomo”, pag. 131).
Con riferimento alla congruità e alla deducibilità delle spese professionali, interessanti chiarimenti sono rinvenibili nella sentenza n. 89/3 depositata il 13 febbraio 2019, emessa dalla CTP Modena che, illustrando il folto panorama giurisprudenziale di riferimento espresso in sede di legittimità, ha accolto il ricorso del contribuente.
Nel caso risolto dal giudice di prime cure, l’Agenzia delle Entrate sottoponeva a controllo contabile e fiscale uno studio professionale analizzando, in tale contesto, i rapporti economici e commerciali intercorsi con due società riconducibili al titolare del medesimo studio e la sua famiglia.
In particolare, i verificatori constatavano un consistente flusso di fatturazioni che aveva determinato una sostanziale riduzione del reddito di lavoro autonomo e, di conseguenza, dei suoi associati.
In esito alla verifica fiscale, l’Ufficio riteneva indeducibili i costi derivanti da sovrafatturazione di servizi e spese non inerenti e non documentate recuperando, altresì, I’Iva indebitamente detratta, considerata non inerente con l’attività esercitata.
Di contro, il contribuente contestava l’operato dell’Agenzia delle entrate eccependo l’illegittimità dell’avviso di accertamento per:
- inesistenza dei presupposti per la contestazione della mancata congruità;
- inesistenza della sovrafatturazione;
- illegittimo recupero dell’Iva;
- infondatezza nel merito, per assenza di valida sottoscrizione degli atti.
Simmetricamente, l’Amministrazione Finanziaria confermava il proprio operato, affermando di aver esaminato la documentazione prodotta, rilevando il contenuto “scarno e generico” della stessa.
Il giudice di merito ha ricordato, in via preliminare, che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova circa l’esistenza ed inerenza dei componenti negativi del reddito incombe sul contribuente”.
Sulla base della giurisprudenza di legittimità è il contribuente a dover dimostrare l’inerenza della spesa all’attività svolta mediante elementi certi e precisi; inoltre, la prova del sostenimento e dei presupposti dei costi, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, non spetta all’Amministrazione Finanziaria che abbia recuperato tali elementi negativi, quanto piuttosto al contribuente che ne chiede la deducibilità.
Nella fattispecie in esame, l’Agenzia delle entrate ha contestato la sovrafatturazione dei servizi effettuata dalle due società riconducibili al legale rappresentante dello Studio:
- non condividendo, sostanzialmente, le scelte gestionali ed organizzative adottate dallo Studio medesimo;
- ritenendo che da tali rapporti sono scaturiti reciproci vantaggi fiscali, ma non ha chiarito in maniera certa se i costi non erano congrui e quindi non inerenti o non si è verificato il sostenimento totale della spesa, né tantomeno ha contestato un’elusione.
Di contro, a parere del giudice tributario, il contribuente ha dimostrato che i costi per i servizi sono stati integralmente sostenuti e, con argomentazioni convincenti, ha evidenziato che sono anche congrui, non sussistendo l’antieconomicità degli stessi.
Sul punto anche la Suprema Corte di cassazione, con la sentenza n. 18904/2018 del 17.07.2018, ha richiamato il suo precedente orientamento (cfr. ordinanza 11.01.2018, n. 450 e ordinanza 09.02.2018, n. 3170), ove era stato affermato che l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, “scevro da riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti a un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo”.
Da ultimo, ai fini Iva, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base a un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la “macroscopica antieconomicità” ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo e attività esercitata.