L’annullamento della cartella non inficia il sequestro
di Luigi FerrajoliLa Suprema Corte, Sezione Terza Penale, con la sentenza n. 36309/2019, si è nuovamente pronunciata in tema di sequestro preventivo per equivalente, con una decisione di particolare rilevanza pratica in quanto concernente la differenza tra sgravio ed annullamento della cartella esattoriale ai fini della validità del sequestro preventivo nel correlato procedimento penale.
Nel caso di specie, un soggetto indagato per omesso versamento Iva, reato previsto e punito dall’articolo 10-ter D.Lgs. 74/2000, aveva presentato ricorso per Cassazione impugnando l’ordinanza, resa in sede di appello, confermativa di un provvedimento di sequestro preventivo disposto dal Giudice per le Indagini Preliminari.
In particolare, il ricorrente aveva eccepito vizio di motivazione e violazione di legge, censurando l’affermazione del Giudice di appello secondo cui non era venuta meno la pretesa fiscale ancorché fosse stata annullata, per vizio formale, la cartella di pagamento in esito a giudizio tributario.
Da ciò sarebbe scaturito, ad avviso del soggetto impugnante, il venir meno del profitto e del prezzo del reato, che costituiscono il presupposto della misura cautelare.
La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso rilevando innanzitutto, conformemente ad una propria precedente decisione, che “il profitto, confiscabile anche per equivalente, nel delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della Commissione Tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio” da parte dell’Amministrazione finanziaria”.
Lo sgravio, prosegue la Corte, “renderebbe privo di qualsiasi giustificazione “allo stato” (secondo la particolare natura del giudizio cautelare, necessariamente rebus sic stantibus) il mantenimento del sequestro in assenza di qualsivoglia “attuale” pretesa erariale, sembrando non esservi infatti nell’attualità nulla da salvaguardare a seguito non solo dell’annullamento degli avvisi di accertamento ma anche del conseguente provvedimento di “sgravio” del debito tributario, ciò che manifesterebbe l’assenza, appunto, attuale, di pretese erariali, rendendo quindi illegittimo il sequestro funzionale alla confisca per equivalente di un profitto, in atto, inesistente”.
Qui dunque risiede il nodo della questione: la differenza tra lo sgravio e l’annullamento della cartella.
Come argomentato dal Giudice di legittimità, “lo sgravio è qualcosa di completamente diverso dall’annullamento della cartella da parte di un giudice o dello stesso agente della riscossione, dal momento che esso proviene dall’ente impositore il quale, in tal modo, formalizza la cancellazione della propria pretesa”.
La natura di atto pubblico fidefacente del provvedimento di sgravio fiscale emesso dall’Agenzia delle Entrate è dunque costitutivo dell’effetto di estinzione del debito erariale.
Tuttavia, nel caso in esame non vi era stato alcun provvedimento di sgravio.
Per tali ragioni, la Corte ha evidenziato che il ricorso, limitandosi a dedurre in ordine al semplice venir meno della pretesa tributaria a cagione dell’annullamento della cartella di pagamento, non si sia confrontato con il contenuto del provvedimento impugnato.
Nel medesimo, infatti, era stato dato chiaramente atto che l’annullamento era intervenuto per un vizio formale del procedimento e che ciò non esplicava influenza alcuna sulla pretesa creditoria dell’Amministrazione finanziaria, che doveva ritenersi ancora valida e in essere.
Sulla base delle sopra richiamate considerazioni, la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, come anche richiesto dal Procuratore Generale e, considerando del tutto assorbente la questione testé analizzata, ha condannato il ricorrente al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, sottolineando che nell’ipotesi de qua non sussistano elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.