L’applicabilità delle procedure fallimentari al non profit
di Guido MartinelliIl caso sottoposto all’attenzione del Giudice di legittimità concerne un ente associativo operante nel settore della formazione professionale con entrate costituite sia da contributi pubblici che da corrispettivi privati.
Nell’ordinanza in commento (n. 4418/2022 del 10.02.2022), la Corte di Cassazione pone l’accento sul requisito (oggettivo) delle modalità commerciali ravvisate, nel caso di specie, nell’assenza di gratuità nell’erogazione della prestazione e nell’attitudine dell’Ente stesso a conseguire un risultato economico.
Quanto all’assoggettabilità alla disciplina del fallimento, il riferimento citato nell’ordinanza stessa è l’articolo 1, comma 1, L.F. secondo cui: “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano attività commerciale, esclusi gli enti pubblici” in combinato disposto con l’articolo 2082 cod. civ., in forza del quale “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Partendo dal dato letterale, il Giudice valuta la riconducibilità dell’Associazione ricorrente al concetto di imprenditore che eserciti attività commerciale e, pertanto, l’assoggettabilità al fallimento.
Con un limpido excursus, in particolare, la Cassazione si associa alla tesi dei Giudici di secondo grado di cui alla sentenza oggetto di gravame, laddove considera, quale elemento sintomatico della “commercialità”, il concetto di “lucro oggettivo” che si discosta dal mero scopo di lucro.
Detto concetto, infatti, verte su una tendenziale proporzionalità costi/ricavi a prescindere dalla natura soggettiva dell’Ente stesso.
Ed infatti, a monte del percorso ermeneutico della Corte, il fattore dirimente per la qualifica della commercialità sarebbe, ex articolo 2082 cod. civ., l’esercizio di una attività economica organizzata e dotata, pertanto, di idoneità alla remunerazione dei fattori produttivi.
A contrariis, l’Ente che esercita esclusivamente attività istituzionale in modo del tutto gratuito, non si qualifica come imprenditore.
A riguardo, invero, si segnala la sentenza n. 22955 del 21.10.2020 della Corte di Cassazione, che esclude l’assoggettabilità all’articolo 2082 cod. civ., e, quindi, all’articolo 1 L.F., ad esempio, per una Associazione che svolge attività di formazione professionale per conto dell’Amministrazione Regionale, in attuazione di un piano regionale, definita espressamente dalla apposita L.R. di riferimento quale attività dal carattere gratuito, ragion per cui “l’erogazione gratuita dei servizi di formazione escludono il carattere imprenditoriale dell’attività svolta dall’associazione” (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 22955 del 21.10.2020).
Ciò posto, è del tutto irrilevante la mancata distribuzione di utili e ricavi, nonché la finalità “sociale” delle attività espletate, dal momento che, nel caso di specie, l’Associazione opera mediante finanziamenti della Regione ed elargizioni di privati, intesi quali ricavi veri e propri, idonei a coprire i costi dei servizi offerti, tanto da costituire “cospicue entrate, come risulta dalla relazione del perito di parte” .
Ad ogni buon conto, per la qualifica di imprenditore commerciale (quindi per l’assoggettabilità al fallimento) è necessario prescindere dal concetto di scopo di lucro (lucro c.d. soggettivo) ed orientarsi, piuttosto, verso il criterio della proporzionalità costi/ricavi (lucro oggettivo) inteso come attitudine al conseguimento della remunerazione dei fattori produttivi (cfr., ex multis Corte di Cassazione, n. 22955/2020; n. 20815/2006) oppure, quantomeno, alla idoneità dei ricavi a conseguire il pareggio di bilancio (cfr. Corte di Cassazione, n. 42/2018) e viene escluso solo in caso di attività prettamente gratuita (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 3353/1994; Corte di Cassazione, n. 22955/2020; n. 14250/2016; n. 16453/2003) a nulla rilevando il fine “altruistico” (cfr. Corte di Cassazione, n. 17399/2011; n. 16612/2008; n. 9589/1993) costituendo semplicemente il movente che induca l’imprenditore ad esercitare la sua attività.
Tanto premesso, secondo il Giudice di legittimità, ciò che rileva effettivamente ai fini del “test di commercialità” è la presenza di una struttura organizzata in modo professionale (quindi sistematica e non occasionale) preordinata all’esercizio di una attività economica, da intendersi come idonea a coprire almeno i costi di produzione.
Da questo punto di vista, dunque, tutti gli enti associativi, seppur non profit, possono qualificarsi come imprenditore commerciale fallibile, laddove svolgano in via prevalente se non esclusiva, attività di impresa, a prescindere dallo status giuridico.
Detta nozione “estensiva” dell’imprenditore e dell’attività commerciale, basata sulla obiettiva economicità della gestione, intesa quantomeno come proporzionalità costi/ricavi, oltre ad essere pacifica nella giurisprudenza domestica, è altresì condivisa dal Giudice euro-unitario, laddove arriva ad includere nella nozione di “imprenditore” qualsiasi entità che svolga attività economica, a prescindere dallo status giuridico e dalle modalità di finanziamento (Corte di Giustizia, C-41-90).