L’atto impositivo carente nella motivazione è illegittimo
di Sergio PellegrinoCon l’ordinanza 13402/20, depositata in cancelleria nella giornata di ieri, la Cassazione si è soffermata sull’annosa questione dell’illegittimità degli atti impositivi quando non sufficientemente motivati.
La controversia sulla quale la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi riguarda la legittimità di una sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia del 2014, che aveva avallato l’operato dell’Agenzia delle Entrate in relazione ad un avviso di liquidazione emanato per il recupero dell’imposta di registro su un verbale di conciliazione giudiziale.
Il verbale in questione, sottoscritto tra i ricorrenti ed un terzo, prevedeva l’obbligo di restituzione da parte di quest’ultimo di una somma ricevuta a titolo di caparra confirmatoria in base ad un contratto risolto con il verbale di conciliazione.
Il ricorso per la cassazione della sentenza si basa su due motivi.
Innanzitutto, la violazione dell’articolo 7, comma 1, dello Statuto dei diritti dei contribuenti, rubricato “Chiarezza e motivazione degli atti”, che stabilisce che “Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
Secondo i contribuenti, l’avviso di liquidazione era da questo punto di vista assolutamente carente, non contenendo indicazione della tariffa d’imposta applicata, né delle ragioni della pretesa erariale, facendo invece generico riferimento ad un verbale di conciliazione che non era stato allegato.
L’avviso emesso dall’Agenzia si limitava infatti ad indicare che la pretesa impositiva si riferiva al “verbale di conciliazione numero 142/2010 emesso dal tribunale” e indicava il numero di repertorio della registrazione e le parti; inoltre riportava il fatto che la pretesa era a titolo di “imposta principale di registro su atti giudiziari”, riportando gli estremi della legge di riferimento (ossia, genericamente, il D.P.R. 131/1986).
I giudici della Suprema Corte hanno ritenuto il primo motivo di ricorso fondato, in considerazione del fatto che l’avviso di liquidazione contestato difetta di una serie di elementi essenziali:
- non sono riportati i presupposti normativi della pretesa impositiva e il solo riferimento al D.P.R. 131/1986, senza indicazione dell’articolo, non consente evidentemente di stabilire quale sia il fondamento della stessa;
- non è indicata neppure l’aliquota dell’imposta.
Viene al riguardo richiamata la posizione espressa dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza 1134/2000, che ha avuto modo di affermare che “l’avviso di accertamento sia delle imposte dirette sia di quelle indirette deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione dell’imponibile, dell’aliquota applicata e dell’imposta liquidata, nonché dei criteri richiamati ai fini della rettifica”.
Non assume rilevanza dirimente invece la mancata allegazione del verbale di conciliazione lamentata da parte dei contribuenti.
La previsione contenuta nell’articolo 7 dello Statuto dei diritti dei contribuenti non può estendersi ad atti o documenti comunque conosciuti dai contribuenti: nel caso di specie, l’atto in questione, essendo appunto un verbale di conciliazione, era stato perlopiù redatto da parte degli stessi e quindi per forza di cose da loro perfettamente conosciuto.
Il secondo motivo di ricorso, fondato sull’assoggettamento del verbale di conciliazione a tassazione in misura fissa, è risultato pertanto assorbito.
Cassando la sentenza impugnata, e non essendovi necessità di accertamenti in fatto, la causa è stata decisa nel merito con l’accoglimento da parte della Corte dell’originario ricorso del contribuente e la condanna dell’Agenzia a rifondere le spese del giudizio di legittimità.