L’azione revocatoria ordinaria del curatore nel Codice della crisi
di Ernestina De MedioSi legge nella Relazione illustrativa al Decreto Legislativo di attuazione della L. 155/2017, che l’articolo 165, Codice conferma la legittimazione del curatore a esercitare anche l’azione di revocatoria ordinaria secondo le norme del codice civile. È prevista la competenza esclusiva del Tribunale che ha aperto la liquidazione giudiziale sia che l’azione sia diretta nei confronti del contraente immediato sia, se proponibile, che si rivolta nei confronti degli aventi causa del medesimo.
Premessa di carattere generale sulla natura e finalità dell’azione revocatoria ordinaria
Occorre premettere che le azioni revocatorie – tanto ordinarie che fallimentari – intraprese dal curatore hanno finalità cautelare e meramente conservativa del diritto di credito e non recuperatoria, essendo dirette a conservare e/o ricostruire nella sua integrità, la consistenza patrimoniale del debitore, dallo stesso depauperata con un atto dispositivo.
I beni oggetto degli atti revocati continuano, infatti, ad appartenere all’avente causa, con la conseguenza che, esperita vittoriosamente l’azione da parte del curatore e alienato il bene in sede concorsuale, il decreto di trasferimento del giudice delegato sarà pronunciato “contro” l’acquirente revocato e l’atto notarile di trasferimento sarà sottoscritto dal curatore disponendo di un diritto dell’acquirente revocato; e contro questo soggetto (e a favore di chi ha acquistato dalla procedura) verranno trascritti.
La legittimazione del curatore nel proporre l’azione
È a tutti noto che il curatore deve procedere alla liquidazione dei beni già oggetto di atti a titolo gratuito posti in essere dal fallito nei 2 anni anteriori alla dichiarazione di fallimento[1] come pure dei beni già oggetto di atti definitivamente revocati a seguito dell’esercizio di azioni revocatorie tanto ordinarie quanto fallimentari.
Così come è pacifico che la disposizione di cui all’articolo 166, Codice sostituisce l’articolo 67, L.F., indicando al comma 1 gli atti revocabili senza che il curatore debba provare la conoscenza in capo alla controparte dello stato di insolvenza in cui versava il debitore: la presunzione (iuris tantum) di conoscenza è giustificata dalla circostanza, comune a tali atti, di essere normalmente estranei, in quanto dannosi, alla condotta dell’imprenditore in grado di gestire l’impresa senza condizionamenti derivanti dalla sua situazione economico finanziaria.
Nel comma 2 sono elencati gli atti conformi alla normale prassi commerciale e quindi di per sé non indicativi di approfittamento della minorata forza contrattuale del debitore, che sono revocabili solo se compiuti nella consapevolezza (da dimostrarsi da parte del curatore) dello stato di insolvenza in cui si trovava il debitore: i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale o nei 6 mesi anteriori.
Il comma 3 conferma la previsione di cause di esenzione dalla revocabilità di atti che diversamente rientrerebbero nelle fattispecie sopra elencate.
Infine, la norma ripropone le cause di esenzione già previste dall’articolo 67, L.F..
Con riferimento agli atti compiuti, ai pagamenti effettuati e alle garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in esecuzione di piani attestati di risanamento, è stato previsto espressamente che l’esenzione opera anche con riferimento alla revocatoria ordinaria, così risolvendo il contrasto giurisprudenziale esistente sul punto. Si tratta di disposizioni dirette a incentivare il ricorso a tali strumenti di regolazione della crisi, garantendo stabilità agli atti compiuti in presenza di una situazione di insolvenza o di rischio di insolvenza in caso di non impossibile esito negativo della procedura. L’ultimo comma ribadisce l’inapplicabilità della disciplina della revocatoria contenuta nell’articolo in esame all’istituto di emissione, alle operazioni di credito su pegno e di credito fondiario e la salvezza delle disposizioni delle leggi speciali.
Indipendentemente dalla circostanza che “l’inefficacia” non richieda o piuttosto richieda la pronuncia (e il passaggio in giudicato) di una sentenza costitutiva in accoglimento di un’azione da parte del curatore, i beni stessi (i diritti sui beni) sono da considerarsi liquidabili per la soddisfazione del ceto creditorio.
Occorre precisare che l’articolo 64, L.F. da un lato[2] e l’articolo 2901, cod. civ. (in quanto richiamato, a sua volta, dall’articolo 66, L.F.[3]) dall’altro, in cui si prevede, rispettivamente, che “Sono privi di effetto rispetto ai creditori, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, gli atti a titolo gratuito…”. “I beni oggetto degli atti di cui al primo comma sono acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento… (art.64, 1° e 2° comma)” e che “il creditore … può domandare che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio con i quali il debitore rechi pregiudizio alle sue ragioni” quando concorrano le condizioni ivi precisate (art.2901, 1° comma)”, fanno riferimento agli atti di disposizione che hanno fatto uscire beni dal patrimonio del debitore per farli entrare nel patrimonio di un terzo (acquirente). Attraverso il meccanismo dell’inefficacia – quale prevista dall’articolo 64, L.F. oppure da ottenere come risultato di un’azione costitutiva definitivamente vittoriosa nelle altre ipotesi – i beni stessi potranno essere liquidati a favore dei creditori.
Tuttavia, in via interpretativa queste disposizioni sono costantemente ritenute applicabili anche agli atti costitutivi di vincolo che possano egualmente risolversi in un pregiudizio per i creditori: i beni continuano a far parte del patrimonio del debitore – non sono quindi passati a terzi – ma la situazione dei creditori è resa deteriore in quanto la loro soddisfazione sui beni stessi incontra dei limiti che prima non esistevano. Basta pensare per tutti a un atto con cui il debitore abbia costituito il proprio bene in fondo patrimoniale: dopo l’annotazione nei registri dello stato civile l’aggredibilità del bene in sede esecutiva sarà soggetta alle limitazioni di cui all’articolo 170, cod. civ..
… per gli atti a titolo oneroso
Cosa accade quando il bene è uscito dal patrimonio del debitore poi dichiarato fallito ed è entrato in quello dell’acquirente con atto a titolo oneroso?
È ovviamente possibile liquidare questo bene a vantaggio dei creditori del debitore dante causa: altrimenti non si spiegherebbe perché il Legislatore avrebbe dettato le disposizioni richiamate, avrebbe cioè previsto che sono privi di effetto (nei confronti del ceto creditorio) gli atti di trasferimento, sia quelli a titolo gratuito posti in essere nel biennio anteriore sia quelli revocati.
La strada per ottenere tale risultato (cioè la possibilità di liquidazione) però, non è quella di far rientrare il bene nel patrimonio fallimentare come “bene del fallito”, da liquidare quindi secondo le regole del fallimento alla stregua dei beni esistenti al momento della dichiarazione di fallimento e di quelli acquistati dal fallito in corso di fallimento, bensì liquidare un bene a favore del ceto creditorio – e conseguire così il risultato che il Legislatore ha evidentemente inteso realizzare – escludendo che il bene stesso sia (ri)entrato a far parte del patrimonio fallimentare come “bene del fallito”.
La finalità dell’azione revocatoria ordinaria è quella di permettere al creditore definitivamente vittorioso di aggredire esecutivamente il bene oggetto dell’atto revocato nella forma dell’espropriazione contro il terzo proprietario ex articolo 602, c.p.c.: il creditore, dunque non utilizzerà l’espropriazione contro il debitore come avrebbe potuto (e dovuto) fare se il bene fosse nuovamente del suo debitore al momento del pignoramento, come se fosse, cioè, rientrato nel patrimonio del suo debitore all’esito vittorioso dell’azione revocatoria, proprio perché il risultato dell’esercizio vittorioso e definitivo dell’azione revocatoria ordinaria non consiste nel far rientrare il bene oggetto dell’atto revocato nel patrimonio del dante causa.
Come accade quando l’articolo 66, L.F. mette a disposizione del curatore l’azione revocatoria ordinaria, a vantaggio – in tal caso – dell’intero ceto creditorio che abbia fatto valere le proprie ragioni nel fallimento: si potrà, quindi, conseguire il risultato della liquidazione del bene già oggetto dell’atto revocato; ma anche qui lo si potrà fare senza che il bene sia previamente entrato a far parte del patrimonio fallimentare come bene del fallito.
È chiaro e ne consegue che se il fallimento dovesse chiudersi, dopo l’esito vittorioso da parte del curatore dell’azione revocatoria ordinaria, senza che si sia reso necessario liquidare quel bene (o anche in caso di accoglimento del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento prima della sua liquidazione), il bene continuerebbe a rimanere – come è sempre stato – di chi lo ha acquistato dal debitore poi fallito: l’esito favorevole dell’azione revocatoria risulterebbe a questo punto, a posteriori superfluo: avrebbe consentito di liquidare quel bene se ce ne fosse stato bisogno; ma ormai quel bene non è più necessario/non è più possibile liquidarlo.
Ciò è coerente con lo scopo che il Legislatore mirava a raggiungere consentendo al curatore l’esercizio tanto della revocatoria ordinaria quanto della revocatoria fallimentare, quello cioè di ampliare la platea dei beni da liquidare nel fallimento a favore del ceto creditorio.
Ne discende che non è con l’esito vittorioso e definitivo dell’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) che il bene esce dal patrimonio dell’acquirente soccombente in revocatoria e rientra tra i beni del fallito (da liquidare): non può quindi essere trattato, ai fini della liquidazione, né come un bene esistente nel patrimonio del fallito al momento della dichiarazione di fallimento né come un bene acquistato dal fallito durante il fallimento (anche se può essere liquidato a favore del ceto creditorio o tramite procedure competitive o secondo le norme del codice di procedura civile).
Il momento in cui l’acquirente soccombente in revocatoria perde la titolarità del bene (mantenendola – va sottolineato – fino a quel momento), in cui il bene cioè, per così dire, “cambia titolarità”, è necessariamente un momento successivo: quando del bene stesso diviene titolare chi lo acquista dal fallimento, quando cioè, a soddisfazione del ceto creditorio, nel patrimonio fallimentare entra il denaro che ne costituisce il prezzo.
D’altro canto, se la ragione per cui il Legislatore consente al curatore l’esercizio delle revocatorie è quella di accrescere i risultati della liquidazione, e dunque, trattandosi di immobili, a segnare la perdita del diritto (da parte dell’acquirente soccombente in revocatoria) e l’acquisto del diritto (da parte di chi acquista dal fallimento) sarà o il decreto di trasferimento pronunciato dal giudice delegato se si è scelto di liquidare il bene secondo le disposizioni del codice di procedura civile, oppure l’atto notarile tra curatore e acquirente se si è fatto ricorso alle procedure competitive.
Si può aggiungere che questa conclusione risulta perfettamente coerente con quanto accade nel caso di esercizio dell’azione revocatoria ordinaria ex articolo 2901, cod. civ. quando il creditore vittorioso abbia successivamente iniziato un’espropriazione contro il terzo proprietario ex articolo 602, c.p.c. pignorando il bene dell’acquirente soccombente in revocatoria: anche in questo caso, infatti, perdita del diritto (da parte dell’acquirente soccombente in revocatoria) e acquisto del diritto (da parte di chi acquista nell’ambito dell’espropriazione immobiliare) saranno riconducibili al decreto di trasferimento pronunciato dal giudice dell’esecuzione ex articolo 586, c.p.c.. Decreto che – appunto – trasferirà il diritto dall’uno all’altro soggetto, e che sarà coerentemente trascritto contro l’acquirente soccombente in revocatoria e a favore di chi ha acquistato in vendita forzata)[4].
Anche il curatore, così come ogni creditore, dopo aver esercitato vittoriosamente l’azione revocatoria ordinaria, può procedere alla liquidazione del bene già oggetto dell’atto revocato iniziando contro l’acquirente soccombente in revocatoria e dunque iniziare un’espropriazione “contro il terzo proprietario” ex articolo 602, c.p.c..
È il caso dell’applicazione dell’articolo 107, comma 2, L.F., secondo cui “Il curatore può prevedere nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili.”
D’altronde l’articolo 216, comma 3, Codice statuisce che “Il curatore può proporre nel programma di liquidazione che le vendite dei beni mobili, immobili e mobili registrati vengano effettuate dal giudice delegato secondo le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili”, intendendo queste disposizioni nel senso che – su scelta del curatore nel primo caso e su proposta del curatore nel secondo – la liquidazione avvenga applicando l’articolo 602, c.p.c.: ne discenderebbe che il bene stesso si trasferirebbe senz’altro da chi è rimasto soccombente in revocatoria a chi lo acquista dal fallimento.
A sostegno si potrebbero richiamare l’articolo 66, comma 1, L.F. e l’articolo 165, comma 1, Codice laddove prevedono che il curatore possa domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori “secondo le norme del codice civile”: il richiamo operato alle norme del codice civile sarebbe da intendere come riferito all’intero sistema di tutela messo a disposizione del creditore con la revocatoria ordinaria. Richiamo non solo quindi al momento della cognizione (l’azione revocatoria ordinaria è regolata dal codice civile essendo l’articolo 2901 una disposizione “del codice civile”), ma anche a quello successivo della realizzazione coattiva (pur essendo l’espropriazione contro il terzo proprietario istituto del codice di procedura civile: l’articolo 602 è – per così dice – articolo 602 “del codice di procedura civile”).
Tanto più che è lo stesso codice civile, al successivo articolo 2902, a prevedere come il creditore, ottenuta la dichiarazione di inefficacia, possa promuovere “nei confronti dei terzi acquirenti le azioni esecutive … sui beni che formano oggetto dell’atto impugnato”. E quindi il richiamo alle norme del codice civile operato dagli articoli 66, L.F. e 165, comma 1, Codice, includerebbe, persino da un punto di vista letterale, anche la messa a disposizione del curatore della tutela esecutiva nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario.
Accogliendo tale tesi, è evidente, l’atto notarile o il decreto di trasferimento opererebbero facendo uscire direttamente il bene dal patrimonio dell’acquirente revocato per farlo entrare in quello di colui che acquista dal fallimento. E, trattandosi di immobili, la trascrizione dell’atto o del decreto sarebbe effettuata rispettivamente contro dell’acquirente revocato e a favore di chi ha acquistato dal fallimento.
L’azione revocatoria subita dal curatore fallimentare
Con la sentenza n. 40745/2021 la Cassazione si pronuncia in tema di revocatoria ordinaria, soffermandosi sull’ipotesi in cui il debitore risulti già fallito prima dell’instaurazione del relativo giudizio.
Muovendo dai principi generali in materia, i giudici confermano la declaratoria di improponibilità di una domanda di revocatoria ordinaria quando l’autore dell’atto dispositivo oggetto di revoca risulti già fallito; improponibilità che, se non correttamente rilevata, può essere eccepita soltanto dalla curatela del fallimento.
I giudici ribadiscono anche che lo scopo della revocatoria ordinaria è soltanto quello di garantire l’effettività della responsabilità patrimoniale del debitore; ne consegue quindi che il bene oggetto dell’atto dispositivo non deve necessariamente essere libero né capiente ai fini della valida esperibilità dell’azione, né è necessario che il creditore che agisce in revocatoria dimostri l’effettiva e concreta probabilità di realizzo del proprio credito sul bene stesso.
Peraltro, concludono i giudici, quando l’atto dispositivo oggetto di revocatoria è successivo al sorgere del credito vantato, è sufficiente la consapevolezza da parte del terzo circa il pregiudizio potenzialmente arrecato al creditore, senza doverne anche dimostrare la c.d. partecipatio fraudis.
Più esattamente la Cassazione muove dai principi in materia di revocatoria ordinaria e, richiamando l’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze n. 29420/2008 e n. 29421/2008), ribadisce che il curatore, che ai sensi dell’articolo 66, L.F. subentra nell’azione revocatoria ordinaria, relativa a un atto di disposizione compiuto dal debitore, poi fallito nel corso del giudizio, accetta la causa nello stato in cui si trova.
L’esercizio di tale facoltà non sconta quindi i limiti entro cui le parti possono formulare domande o eccezioni nuove nel processo di I grado, né è soggetto al termine previsto per proporre il gravame incidentale o alle preclusioni di cui all’articolo 345, comma 1, c.p.c., se la lite è già pendente in appello.
È, infatti, sufficiente che il curatore si costituisca in giudizio, anche in grado d’appello, dichiarando di voler far propria la domanda di revocatoria proposta, per investire il giudice del dovere di pronunciare sulla stessa nei confronti dell’intera massa creditoria (così Cassazione, sentenza n. 614/2016 e ordinanza n. 13306/2018).
Pur tenendo a mente i principi richiamati, non può tuttavia prescindersi dal caso in cui il debitore, che ha posto in essere l’atto oggetto di revocatoria, era già fallito prima dell’instaurazione del relativo giudizio.
In tal caso, osservano i giudici, il Tribunale avrebbe infatti dovuto limitarsi a dichiarare l’improcedibilità della domanda senza pronunciare l’interruzione, con onere di riassunzione a carico del fallimento.
L’unico legittimato a dolersi di tale pronuncia era pertanto il curatore, che pur non avendolo fatto ben avrebbe potuto costituirsi in giudizio, contestando la declaratoria di interruzione e invocando l’improcedibilità della domanda originariamente proposta.
In tal modo la Corte ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui l’azione revocatoria mira unicamente a tutelare l’effettività della responsabilità patrimoniale del debitore, senza tuttavia produrre effetti recuperatori o restitutori del bene dismesso al patrimonio del medesimo.
Proprio perché il solo effetto è l’inefficacia dell’atto revocato, e dunque l’assoggettamento del bene al diritto del revocante di procedere a esecuzione forzata su di esso, non occorre che il bene sia libero o tantomeno capiente.
Il caso esaminato dalla Cassazione, sentenza n. 12476/2020
Le Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 12476/2020 hanno sancito i seguenti principi statuendo che oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l’assoggettabilità del bene a esecuzione. Il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all’interesse dei creditori dell’alienante, soltanto per il suo valore; ove l’azione costitutiva non sia stata dai creditori dell’alienante introdotta prima del fallimento dell’acquirente del bene che ne costituisce l’oggetto, essa – stante l’intangibilità dell’asse fallimentare in base a titoli formati dopo il fallimento (c.d. cristallizzazione) – non può essere esperita con la finalità di recuperare il bene alienato alla propria esclusiva garanzia patrimoniale, poiché giustappunto si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente. In questo caso i creditori dell’alienante (e per essi il curatore fallimentare ove l’alienante sia fallito) restano tutelati nella garanzia patrimoniale generica dalle regole del concorso, nel senso che possono insinuarsi al passivo del fallimento dell’acquirente per il valore del bene oggetto dell’atto di disposizione astrattamente revocabile, demandando al giudice delegato di quel fallimento anche la delibazione della pregiudiziale costitutiva.
In altri termini, l’azione costitutiva non è proponibile contro la procedura concorsuale, ma è comunque possibile far valere, in sede di verificazione dei crediti, la pretesa conseguenziale, previa delibazione della pregiudiziale costitutiva da parte del giudice delegato, per giungere ad affermare l’inammissibilità di azioni revocatorie (fallimentari e ordinarie) tra fallimenti.
La vicenda prende le mosse dalla richiesta di un curatore del fallimento di una Srl in liquidazione, in sede di rivendica ai sensi dell’articolo 103, L.F. che fosse dichiarata l’inefficacia ex articolo 2901, cod. civ. e articolo 66, L.F. di alcuni atti dispositivi posti in essere dalla società quando si trovava in bonis nei confronti di un’altra Srl della quale era in egual modo sopravvenuto il fallimento.
La domanda non veniva però accolta dal giudice delegato e il Tribunale rigettava a sua volta l’opposizione allo stato passivo avanzata dalla curatela della Srl in liquidazione.
Il rigetto era motivato dall’orientamento secondo cui deve ritenersi inammissibile l’azione revocatoria proposta nei confronti di un fallimento dopo l’apertura del concorso, in virtù del principio della cristallizzazione del passivo fallimentare sancito dall’articolo 52, L.F..
La curatela fallimentare ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando che sarebbe stato comunque possibile proporre l’azione revocatoria nei confronti della curatela fallimentare dopo la dichiarazione di fallimento del terzo.
Con ordinanza n. 19881/2019, la Cassazione ha rimesso gli atti al primo presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, al fine di esaminare la questione relativa all’ammissibilità o meno dell’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare) nei confronti di un fallimento.
Il quesito era stato tuttavia già risolto negativamente dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità con la sentenza n. 30416/2018 che aveva affermato il principio secondo cui è inammissibile l’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare) esperita nei confronti di un fallimento, poiché, da un lato, si tratta di un’azione costitutiva che modifica ex post una situazione giuridica preesistente e, dall’altro, in ragione del fatto che nel sistema opera il principio di cristallizzazione del passivo alla data dell’apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori.
La prima sezione ha tuttavia sollecitato un ripensamento di questa posizione alla luce di alcune osservazioni avanzate in senso critico dalla dottrina.
La soluzione del problema potrebbe difatti essere differente in ragione dell’esigenza di assicurare tutela al ceto creditorio del soggetto disponente, dinanzi a un evento verificatosi prima del fallimento del beneficiario dell’atto, visto che: l’evento arricchirebbe i creditori di questo a danno di quelli del primo.
Gli argomenti che farebbero propendere per un cambiamento di rotta rispetto all’orientamento consolidato andrebbero dunque ricercati non solo in quanto disposto dall’articolo 290, Codice, in tema di azione revocatoria proposta nei confronti di una società facente parte di un gruppo, ma anche dalla necessità di una rivalutazione della natura e della funzione dell’azione stessa che andrebbe rimodulata come azione di tipo dichiarativo.
Si osserva a tal proposito che l’orientamento sino a ora sostenuto dalla giurisprudenza avrebbe un ambito limitato dall’oggetto costituito dalle revocatorie (fallimentari) di pagamenti, donde sarebbe opportuno formulare una riflessione per quanto concerne invece la fattispecie in cui il fallimento coinvolga il terzo acquirente di beni.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto di dare continuità all’orientamento giurisprudenziale attualmente vigente sia per quanto concerne la natura e le modalità di produzione degli effetti dell’azione revocatoria sia per quanto riguarda il principio di cristallizzazione, ritenendo tuttavia opportuno formulare alcune precisazioni.
Le Sezioni Unite hanno innanzitutto ribadito il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui la sentenza che accoglie la domanda di revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, poiché essa modifica ex post una situazione giuridica preesistente.
Ciò avviene sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, gli atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando la restituzione dei beni e delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale ex articolo 2740, cod. civ. e alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto.
La situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non è dunque espressione di un diritto di credito alla restituzione della somma o dei beni esistente prima e indipendentemente dall’azione giudiziale, ma rappresenta invero un diritto potestativo all’esercizio dell’azione revocatoria rispetto al quale non è configurabile l’interruzione della prescrizione a mezzo di un semplice atto di costituzione in mora.
La revocatoria realizza quindi lo scopo di recuperare nel patrimonio del debitore quanto occorre per soddisfare le ragioni dei creditori pregiudicati dalla conclusione dell’atto (c.d. inefficacia relativa dell’atto).
L’azione giova al creditore ovvero alla massa, laddove la domanda venga esercitata in ambito fallimentare, senza però incidere negativamente sull’esistenza o sulla validità dell’atto visto quanto disposto dall’articolo 2902, cod. civ..
Il terzo acquirente del bene oggetto dell’atto impugnato con l’azione revocatoria rimane dunque titolare del diritto di proprietà, ma resta tuttavia esposto alle ragioni esecutive del creditore.
Più specificatamente, in ambito fallimentare, la sentenza di revoca è idonea a determinare l’inefficacia relativa nel caso in cui l’atto dispositivo sia stato realizzato prima del fallimento dell’acquirente.
La sopravvenienza del fallimento dell’acquirente rileva non tanto per cristallizzare il passivo quanto piuttosto per cristallizzare l’asse fallimentare alla data del fallimento (articoli 42, 44 e 52, L.F.).
L’esercizio positivo dell’azione revocatoria sottrarrebbe dunque il bene alla garanzia dei creditori del fallimento dell’acquirente sulla base di un atto, vale a dire la sentenza, successiva al fallimento, il cui effetto retroagisce alla data della domanda.
Nel caso in cui la domanda sia stata proposta successivamente al fallimento dell’acquirente, l’azione revocatoria finirebbe per recuperare il bene alla garanzia patrimoniale del creditore alienante o del ceto creditorio a quest’ultimo riferibile, sottraendo quindi il bene alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente sulla base di un titolo giudiziale formato dopo la sentenza dichiarativa del fallimento con efficacia postuma rispetto a essa.
La sopravvenuta dichiarazione di fallimento dell’acquirente renderebbe impossibile proporre l’azione costitutiva alla luce di un evento occasionale ed estrinseco rispetto ai creditori dell’alienante.
Le Sezioni Unite, a tale proposito, hanno evidenziato che l’ordinanza interlocutoria ha indubbiamente colto un elemento di criticità del sistema, in quanto potrebbero essere pregiudicate le possibilità di tutela a seconda del caso in cui il terzo acquirente sia o meno fallito prima che i creditori dell’alienante o il curatore (in specie a sua volta fallito) abbiano potuto esperire l’azione a difesa della garanzia patrimoniale, ma hanno affermato che l’esigenza di tutela non può rimanere inevasa, in quanto il sistema non può tollerare che i creditori dell’alienante rimangano irrimediabilmente danneggiati in specie da un fattore esterno come quello rappresentato dal sopravvenuto fallimento dell’acquirente del bene alla luce del principio sancito dall’articolo 2740, cod. civ., ed è dunque emersa la necessità di individuare i criteri per la ricostruzione della posizione dei creditori che risulterebbero pregiudicati dall’atto dispositivo quando l’azione revocatoria non possa realizzare la propria funzione.
A tale proposito è opportuno rammentare che, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l’oggetto della domanda di revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene in sé, bensì la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori attraverso l’assoggettabilità del bene a esecuzione.
Il bene dismesso con l’atto soggetto a revocatoria deve quindi essere preso in considerazione solamente per il suo valore.
Nel caso in cui l’assoggettabilità del bene all’esecuzione è impossibile poiché il cespite è stato alienato a terzi con atto opponibile ai creditori, la soluzione percorribile è dunque rappresentata dalla reintegrazione dei creditori per equivalente pecuniario.
Alla luce dei principi e della ricostruzione della fattispecie sopra richiamata, le Sezioni Unite hanno in conclusione affermato che non è possibile esperire l’azione costitutiva quando il fallimento del terzo acquirente è stato dichiarato dopo l’atto di alienazione, ma prima che sia stata esercitata l’azione revocatoria.
Il fallimento del terzo acquirente rende infatti l’azione costitutiva inammissibile poiché non è consentito incidere sul patrimonio del fallimento, recuperando il bene alla sola garanzia patrimoniale del creditore dell’alienante, perché il bene non può essere sottratto all’asse fallimentare cristallizzato al momento della dichiarazione del fallimento.
Le Sezioni Unite hanno tuttavia evidenziato che resta salva la possibilità di esercitare l’azione restitutoria per equivalente parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale, sostenendo che il fallimento dell’acquirente non impedisce difatti di poter proporre domanda di insinuazione al passivo per il corrispondente controvalore del bene.
Il principio di cristallizzazione del passivo non ha peraltro alcuna rilevanza impeditiva, in quanto non può essere precluso ai creditori dell’alienante di ottenere la reintegrazione per equivalente quando l’atto è anteriore al fallimento del terzo acquirente.
Il fallimento apre infatti il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, donde chiunque si affermi creditore e intenda concorrere sul ricavato della liquidazione dei beni compresi nell’asse fallimentare, resta soggetto alle regole previste per l’accertamento del passivo a condizione che l’atto lesivo della garanzia patrimoniale sia anteriore alla sentenza di fallimento.
Le Sezioni Unite hanno, nel caso di specie, respinto il ricorso della curatela della Srl che aveva proposto la domanda nella forma della rivendica ex articolo 103, L.F. del bene oggetto dell’atto revocabile.
I giudici di legittimità hanno a tal proposito rammentato che, sebbene la domanda di rivendicazione venga proposta nelle forme previste per l’insinuazione al passivo, l’oggetto dell’istanza è costituito dal bene in sé sul presupposto che la proprietà rimanga in capo al disponente.
Nell’ipotesi in cui sia stata conclusa la vendita con un atto revocabile, la revocatoria non travolge però l’atto impugnato, anche nel caso di esito vittorioso, e non determina che il bene possa essere rivendicato come facesse ancora parte del patrimonio del debitore.
[1] Legge Fallimentare – e il Codice della crisi – dispongono che “Sono privi di effetto rispetto ai creditori, se compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (dal debitore dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale o nei due anni anteriori), gli atti a titolo gratuito… (così rispettivamente articolo 64, comma 1, e articolo 163, comma 1) e che “Il curatore può domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del codice civile” – articolo 2901 e ss., cod. civ. – esercitando l’azione revocatoria ordinaria (articoli 66, comma 1, e 165, comma 1) o ottenere che vengano revocati gli atti individuati ai commi 1 e 2 dell’articolo 67, L.F. (e – rispettivamente – dell’articolo 166) esercitando l’azione revocatoria fallimentare.
[2] E l’articolo163, Codice.
[3] E dall’articolo 165, Codice.
[4] Altrettanto coerentemente l’eventuale residuo della somma ricavata andrà attribuito all’acquirente soccombente in revocatoria, secondo quanto prevede l’ultimo comma dell’articolo 510, c.p.c. che fa espressamente riferimento non solo al debitore ma anche al “terzo che ha subito l’espropriazione”. E sarà sempre a questo soggetto che andrà consegnata la somma ricavata nel caso di estinzione del processo esecutivo verificatasi dopo l’aggiudicazione o l’assegnazione benché l’articolo 632, comma 2, c.p.c. ne preveda la consegna “al debitore”.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Crisi e risanamento”.