Le Asd e la loro natura di ente non commerciale
di Guido MartinelliAvevamo già commentato con preoccupazione la sentenza della Corte di Cassazione n. 526 del 14.01.2021 (vedi “La natura fiscale delle Asd alla luce di un orientamento della Cassazione” in EcNews del 17.02.2021) dove veniva affermato il principio di diritto secondo il quale il tema della “prevalenza” dell’attività commerciale, al fine della applicazione della perdita del requisito della non commercialità di cui all’articolo 149 Tuir, valevole per tutti gli altri enti non commerciali, sia da applicare anche agli enti religiosi e alle sportive, nonostante la previsione del comma 4 del citato articolo, in forza del quale le stesse disposizioni “non si applicano per gli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche” (articolo 149, comma 4,Tuir) .
La Suprema Corte è tornata sul tema con la sentenza n. 17026 del 16.06.2021.
Fino ad oggi, forse incautamente, gli operatori avevano sempre dato valore di presunzione legislativa alla disposizione in esame, ritenendo che le associazioni sportive (il problema ovviamente non tocca le Ssd, che sono enti commerciali per natura) non potessero perdere mai il loro requisito di enti non commerciali (ovviamente sul presupposto che tali potessero ritenersi sulla base di quanto previsto dall’articolo 73).
L’oggetto della decisione in esame riguardava l’attività di un centro ippico: il giudicante di secondo grado, pur riconoscendo la prevalenza dello svolgimento di attività commerciale (pensionamento cavalli) aveva comunque classificato le quote associative quali proventi “istituzionali”.
L’Agenzia, in sede di ricorso di legittimità, si doleva della circostanza che il Giudicante di merito non avesse applicato coerentemente il principio di diritto sancito.
Una volta riconosciuta la prevalenza dei ricavi di natura commerciale, “indipendentemente dalle previsioni statutarie” ne avrebbe dovuto far derivare che ogni provento conseguito dalla contribuente avrebbe dovuto essere assoggettato a tassazione ai sensi di quanto previsto dall’articolo 55 Tuir.
La Corte di Cassazione ha accolto i rilievi della Agenzia.
Infatti chiarisce che, mentre i requisiti di cui all’articolo 73, comma 4, Tuir, presenti nel caso di specie, operano “sul piano della qualificazione dell’ente dall’esterno dell’insieme di norme dedicate agli enti non commerciali gli indici qualitativi di cui allo stesso DPR 917 del 1986 operano all’interno di tale sistema, quindi trovano applicazione solo dopo che l’ente è già stato qualificato (provvisoriamente) come non commerciale”.
La Corte prosegue ricordando il suo precedente sopra citato, confermando che anche “le associazioni sportive dilettantistiche possono perdere la qualifica di ente non commerciale ma soltanto se l’esercizio prevalente di attività commerciale perdura per più di un periodo di imposta e non solo per un unico periodo di imposta come per gli altri enti non commerciali”.
La decisione riporta poi una affermazione che, se diventasse prassi in sede di accertamento (come appare sia possibile, che probabile alla luce di queste due sentenze della Cassazione), non può che preoccupare: “l’errore commesso dal giudice di appello come pure quello di prime cure è stato però quello di distinguere una volta accertata la qualifica di attività commerciale dell’ente, ai fini del pagamento delle imposte, i ricavi da attività commerciale, assoggettata all’imposta e quelli da attività istituzionale esentati dalla stessa”.
Va richiamato anche un altro precedente della Corte (Corte di Cassazione, n. 1633 del 15.02.1995) secondo il quale la natura dell’attività effettivamente esercitata, l’elemento oggettivo, prevale sul fine dichiarato, elemento soggettivo, anche “se si tratti di un fine non di lucro dal momento che lo scopo di ripartire oppure no utili ai partecipanti all’iniziativa commerciale costituisce un momento successivo alla produzione degli stessi che non fa venire meno il carattere commerciale della attività e non rileva ai fini tributari essendo indifferente la definizione data agli utili eventualmente prodotti”.
Ne deriva quindi che l’associazione sportiva che svolge attività “a mercato” vendendo servizi sportivi o prestazioni promopubblicitarie potrebbe trovarsi di fronte, secondo l’insegnamento della Cassazione, ad una riqualificazione in ente commerciale.
Ma questo significherebbe portare a reddito tutti i proventi, ivi comprese le quote associative.
Difficile a questo punto capire quando, nel corso dell’attività della nostra associazione, si possa realizzare questa modifica della natura ai fini fiscali.
Il problema diventa tale anche volendo argomentare a contrariis. Ossia l’associazione che si voglia autoqualificare ente commerciale altrettanto non è garantita in sede di accertamento.
Infatti l’Agenzia potrebbe non condividere questa scelta e ritenere non deducibili eventuali costi che, in condizioni normali, sarebbero rientrati nella sfera della attività istituzionale, recuperando a tassazione solo i ricavi.
Credo che questo punto richieda un urgente intervento chiarificatore da parte della Agenzia delle entrate.